domenica 21 luglio 2019

LE AREE URBANE DEGRADATE: Introduzione e presupposti , di Maria de Fatima Sabaini Gama



LE AREE URBANE DEGRADATE

Introduzione e presupposti


 
di Maria de Fatima Sabaini Gama


 
 
INTRODUZIONE

Il problema della riqualificazione delle aree urbane degradate non è ancora “centrale” nelle politiche di sviluppo delle città. Se esistesse, infatti, una reale coscienza dei problemi di cui soffrono le periferie e di come una loro riqualificazione contribuirebbe in modo fondamentale allo sviluppo sostenibile delle città stesse, si presenterebbe allora davanti una lunga strada da percorrere per inquadrarne la problematica.
Il 2006 è stato l’anno in cui è diventata urbana il 50% della   popolazione mondiale e le previsioni affermano che questa proporzione raggiungerà il 75 % nel 2050. Nelle periferie vive oramai circa 70% della popolazione globale.
Nella sua accezione originale il termine “periferia” fa riferimento ad una circonferenza, un luogo esterno e lontano dal centro. Così è il caso degli “arrondissement” parigini e delle lottizzazioni in Brasile. Sono gli ultimi spazi abitati della città prima delle campagne. Tuttavia Renzo Piano (La Repubblica, 22/11/2005) sostiene che il termine periferia ha perso il suo valore di sostantivo per trasformarsi in un aggettivo volto a qualificare uno spazio “dove i valori della città - l’incontro, il lavoro, lo scambio fisico - muoiono. Quei valori della città che per estensione diventano urbanità, civitas e quando mancano producono odio”. In questo caso, la periferia non è più solo quello spazio lontano dal centro, ma è anche un spazio non controllato all’interno del tessuto urbano dove si realizza il meccanismo di esclusione.
Nel Convegno nazionale INU (Napoli/Marzo/2007) - Territori e Città del Mezzogiorno. “Quante periferie? Quali politiche di governo del territorio”, sono state identificate almeno cinque classificazioni di periferie, secondo la sua nuova accezione. Lo studio era dedicato alla Regione Campania, in Italia, ma certamente il concetto può essere esteso nella macchia urbana globale: 
1.       Le periferie monofunzionali pianificate (le Vele di Scampia, le banlieues francesi, gli insediamenti BNH brasiliani, ecc.);
2.       Le periferie della periferia, con aspetti multiformi tra azione dello Stato e speculazione private (tutta l’area metropolitana a Nord di Napoli e la periferia prodotta nelle grandi città brasiliane, ecc.),
3.       I “centri storici” delle periferie, abitati quasi esclusivamente da extracomunitari -“l’extraperiferia”- luoghi di filtro e di accoglienza, mediazione culturale (caratteristiche delle città del primo mondo come il quartiere napoletano di Pianura);
4.       La periferia nei centri storici degradati delle grandi città (i Quartieri Spagnoli, il centro storico di Palermo, la piazza Mercato a Napoli, il centro di San Paolo, ecc.)
5.       Le periferie “provvisorie” (periferia post terremoto in Campania, le favelas in Brasile, gli slums del Terzo Mondo, ecc.).
 
Le periferie vengono genericamente considerate come il male principale delle nostre realtà urbane, sociali ed economiche; esse però rappresentano la parte più considerevole delle città, e soprattutto la storia urbana ed architettonica degli ultimi cinquant'anni. Nei quartieri periferici spesso, infatti, si è in presenza di un tessuto associativo assai ricco e di una capacità di auto-organizzazione degli abitanti, che ha permesso lo sviluppo di numerose realtà in grado di lavorare con successo sul territorio.
Urge l’esigenza di avviare un ampio e serio dibattito sulla sorte di questi ambiti e contemporaneamente di individuare le linee di intervento per riqualificare questi tessuti, producendo analisi capaci di affrontare il tema a partire dalla considerazione che fanno riferimento a luoghi con risorse capaci di superare le loro stesse criticità. Infatti, il problema deve essere affrontato come un normale processo di trasformazione/evoluzione e non come un processo di degrado/reclusione (Franz e Leader, 2003).
Saskia Sassen, in una ricerca per l’Università di Chicago e per London School of  Economics, afferma che il potere decisionale si va concentrando in alcuni luoghi, quelli in cui vengono prese le decisioni e avviati i processi che riproducono i dispositivi di accumulazione su scala mondiale. Sono centri di potere che divengono sempre più puntuali, da cui si irradiano le reti di comunicazione e di informazione e che danno senso all’economia del pianeta.  Questi centri ancora interagiscono con gli Stati Nazionali, ma sono solo in attesa della loro definitiva decadenza. All’esterno dei perimetri disegnati da questi poteri,  aumenta l’estensione delle periferie. Non esiste più un centro, ma una pluralità di centri che, comunque, ignora la periferia. Favorendo le relazioni con gli altri centri si crea una relazione con la periferia unicamente attraverso dinamiche di sfruttamento, di utilizzo occasionale e predatorio.
Nel Terzo Mondo, questo processo è continuamente in crescita, negando le conquiste acquisite, mentre in Europa  si verificano discontinuità nel corso degli ultimi venti anni nell’uso degli strumenti di programmazione, ma a cui non si è affiancata una seria volontà di recupero condivisa. C’è da rilevare, inoltre, che il dibattito sul  riuso delle aree urbane degradate è ancora molto lontano dal trovare soluzioni.
Esistono numerose relazioni di dipendenza centro/periferia che vanno crescendo o decrescendo secondo la prospettiva scelta. Il Terzo Mondo è la periferia dell’Europa e viceversa l’Europa è centro per il Sud-America e tante altre regioni dell’Africa e dell’Asia. Se si verificasse la previsione di Sassen, è possibile che in Europa, in un tempo relativamente breve, comincino ad spuntare tante situazioni con caratteristiche e problematiche tipiche del Terzo Mondo. Di qui la necessità di comprendere questi ambiti in una forma più ampia possibile.
Studiare parallelamente la realtà brasiliana, cosiddetta periferica, e quella Europea cosiddetta centrale è stata una grande sfida. Ma anche in realtà così diverse si sono verificate similarità ed esperienze da poter scambiare e speriamo, dare un contributo alla ricerca di  soluzioni più concrete e praticabili.
 

 

PRESUPPOSTI...


Dal Rinascimento in poi, la società occidentale inizia un processo di agitazioni e trasformazioni che si estende per cinque secoli. Cessano i totalitarismi assoluti religiosi. Gradualmente l’insieme di oggetti, fenomeni percettibili e le loro rispettive rappresentazioni si vanno disgregando in campi autonomi. Partendo da un tessuto sociale coerente, la stessa idea di una cultura che consacrava ad ogni individuo, gruppo o cosa una posizione definita nell’universo, tutto quello che prima era indiviso, comincia a dissociarsi in aree indipendenti. La politica fa un lungo percorso che parte da Machiavelli e arriva alla Rivoluzione Francese e alla formulazione dei Diritti Umani. Nel XIX secolo l’economia subisce una radicale separazione e le dottrine cominciano a privilegiare, soprattutto, il ruolo del mercato. La produzione artistica e quella intellettuale seguono lo stesso percorso. Infine, la forma di pensare, scientificamente oggettivata, è esaltata come formula ultima di spiegazione dell’esistenza. La religione è spinta ai recinti laici, dovendosi conformare con la “specializzazione” del sacro. Alla strutturazione dell’individuo corrisponde l’“individualizzazione” della conoscenza e delle azioni decorrenti da questo processo. Lo spirito moderno finisce racchiuso in una trappola che è la sua stessa tragedia; ossia, avendo risolto l’enigma dell’universo, l’umanità si scontra con l’enigma di se stessa[1].
L’uomo occidentale si piega alla ragione[2]. Secondo i parametri della cultura borghese, quasi inconsci oramai, egli ritiene che ragionando in forma corretta e sistematica deluciderà il mondo. Conquisterà il potere illimitato allorché individuerà un sistema di classificazione assoluta e riuscirà ad applicarlo a tutto ciò che esiste. Questa ambizione del potere-sapere è pienamente sostanziata nelle successive generazioni di computer, macchine per ordinare e memorizzare le informazioni con rapidità ed efficienza irraggiungibili per il cervello umano[3].
Gradualmente si va istituendo un rigido confine tra le attività di analisi e quelle di sintesi. Le analisi cercano si scomporre, dissecare le cose di cui si occupano. L’obiettivo finale è quello di trovare e capire i principi fondamentali che determinano le unità, fino alle loro espressioni più elementari. In questo processo convergono la fiducia nella razionalità con la superiorità storica e intellettuale della cultura borghese, con i concetti di permanenza, di struttura, di autonomia economica e di competenze[4]. Questi concetti sono la base metodologica del pensiero scientifico. Corrispondono al sapere erudito, legittimato, condiviso in tutti i luoghi della cultura Occidentale; rappresentano la forma ufficiale e più elevata di cognizione dei fenomeni naturali e sociali.
Le attività di sintesi si occupano di collegare elementi che nel processo di analisi sono considerati separatamente, in maniera neutra e universale,  apparentemente senza rapporti logici tra loro. Si esegue il tutto attraverso pratiche concrete e specifiche forme di raggruppamento. Non si tratta quindi di un processo casuale. I suddetti processi sono stati resi possibili attraverso un sistema di significati[5] che agiscono come codici grammaticali, secondo regole etimologiche e sintattiche. Viste attraverso questo prisma, le connessioni tra gli individui e le rispettive società, anche se rispettano determinati standard, ammettono le divergenze, l’ambiguità, la contraddizione e i cambiamenti. Sono tutte possibilità previste dalle regole del gioco. Il ricorso alla metafora e a meccanismi simili tra loro, permette traduzioni, consente scambi di livelli e permette/autorizza collegamenti tra simboli appartenenti a sistemi diversi. Tutto ciò senza distruggere le varie logiche di classificazione.  Le associazioni sono all'ordine del giorno, con una cultura vivace che aggiorna, che supera la tradizione e le sue norme disciplinanti nei rapporti familiari e nella convivenza umana. Questa nuova cultura produce nuovi concetti di gerarchia, di contratti e di accordi di potere, sia globali che congiunturali. La sintesi si basa sul senso comune, quel vasto repertorio di credenze e conoscenze generate e accettate collettivamente, sorta di piattaforma che giustifica e subordina l’insieme delle decisioni nel quotidiano.
Nonostante ciò, l’analisi dei fatti riguardanti la società e la storia non può avere carattere previsionale. È nella sua essenza il carattere ex post facto. Non ci sono leggi, come quelle di natura fisica, nelle scienze sociali, perché gli enunciatori non hanno un laboratorio per monitorare le condizioni che possono influenzare il comportamento delle variabili. I suoi “oggetti” spesso usano contraddire con irriverenza il ricercatore e i soggetti hanno la “cattiva abitudine” di interagire tra loro e con quelli che si sono proposti di studiarli. Le attività di analisi finiscono sempre con l'acquisire un carattere critico e non compromesso quando l’oggetto di studio è il sistema urbano. Tuttavia, è sempre più facile continuare ad analizzare. Se la situazione considerata diverge dal modello che ha ispirato la ricerca, allontanandosi dai termini originari dell’ipotesi, è sempre possibile ricorrere a un “probabile abbaglio” degli attori, all’inconsapevolezza degli “oggetti di studio” e del loro ruolo nella storia oppure ad altre spiegazioni analoghe. Questo comportamento è un’ottima prova dell'autoritarismo semplicista e della deformazione strumentale di coloro che pretendono di vivere la scienza come religione[6]. I mezzi utilizzati, infatti, per fare una presupposta analisi “asettica” sono essi stessi caricati dai valori culturali di un determinato tempo e luogo. Ovvero sono compromessi con situazioni/processi di sintesi.
Ciò che viene chiamato sintesi è la vita stessa. Essa non può essere riassunta in espressioni raffinate e sequenziali di una lettura che, oltretutto, sceglie cosa sottolineare e come farlo. Nelle versioni vernacolari, spesso confuse, i principi strutturanti sono appena percettibili[7]. È proprio questo stato di confusione che alla fine rappresenta la propria vita, che permette agli uomini l’atto di fare e creare, attività che è caratterizzata da continui andare e venire. Tanto il fare come il creare, infatti, sono ri-elaborazioni di modelli latenti o potenziali che, per definizione, devono esistere e trovare un sostegno all’interno di un determinato gruppo sociale. In architettura, un settore che appartiene ai domini della creatività, Gaudì ci insegna che “essere originale è tornare alle radici”. Lo stesso può essere detto in merito alle azioni della vita quotidiana. Queste azioni hanno un enorme potenziale innovativo nell’atto di riproporre quello che, per incorporazione, sembra passato o smarrito. In questi viaggi esplorativi, tuttavia, la strada scientifica non è quella più adeguata. Abbiamo bisogno di un nord morale perché le società possano prendere coscienza della loro posizione nello spazio, perpetuando le organizzazioni anteriori e afferrando in ciò il loro futuro[8].
La questione dei rapporti sociali pone ancora un’altra problematica: la difficoltà di essere rappresentata. Su un particolare spazio fisico e sociale compatto come spesso sono le città, i rapporti sono segnati da molti ordini[9]. La loro espressione comporta un impegno molto complesso. Documenti, collegamenti e confronti in questo ambito non esistono nel loro stato puro. L’attività sociale nasce dalla quotidiana intermediazione dei suoi diversi “interpreti”. Il ricercatore è soltanto qualcuno che compie un'ennesima lettura. La sua versione sarà solo una in più, con la peculiarità di avere una determinata erudizione scientifica. La più completa rappresentazione di queste realtà non riuscirà mai a renderle come effettivamente sono. Consisterà appena in una selezione di simboli che sosterranno la sua analisi. La lettura sintetica delle situazioni reali fornirà la versione definitiva di tutte le rappresentazioni che, a loro modo, saranno forme diverse di percepire le cose.
I modelli di organizzazione e sistematizzazione per la comprensione globale delle città nelle loro formulazioni più scientifiche (modelli matematici) furono molto utilizzati negli anni Sessanta in Brasile. I tentativi di applicazione hanno dimostrato che, per questi modelli, le variabili venivano spesso selezionate, messe in relazione e sintetizzate in forma più o meno arbitraria. Non esiste quindi nessuna garanzia che un determinato aspetto incommensurabile o irreperibile possa essere abbandonato. Le incertezze circa il funzionamento del sistema non permettono all’analista di andare oltre le ovvietà. Va osservato che le città sono tra le più complesse invenzioni della storia[10], ed è proprio questa complessità che ha assicurato loro la sopravvivenza attraverso il tempo. L’uso di strumenti per pensare l’urbano (metodi, modelli, teorie) implica la necessità di una analisi critica mano a mano che essi vengono sistematicamente utilizzati.
Il trattamento scientifico di temi come la città, lo spazio e l’architettura è molto tardivo: solo nel Rinascimento l’Occidente comincia a pensare al mondo e alla società attraverso l’individuo. Mediante l’analisi era possibile ottenere ordini perfetti che servivano come modelli prospettici utili alla correzione dei disordini della pratica. Le utopie, prima contenute entro i limiti della religione e della speculazione morale e filosofica, sono state portate al mondo secolarizzato. Inventato nell’ambito della città e attraverso condizioni specifiche, l’esercizio politico sorgerà naturalmente come dominio autonomo nelle aree urbane. È nelle città che si formano le istituzioni che creano e garantiscono i diritti di cittadinanza, contrattati dalle assemblee di individui liberi che si riconoscono come uguali e che, in questi termini, fanno patti reciproci e collettivi. La natura dialettica di questo rapporto è espressa fin dall’inizio. La disgregazione del vecchio ordine, che cede il posto al nuovo ordine borghese, richiederà un simbolo che venga a sovrapporsi, per la sua forza sintetica, a tutti gli interessi sparsi fino ad allora. La città ideale di Dio, irraggiungibile, è sostituita da una idealizzazione della città fatta dagli uomini. Questa sarà il luogo dove tutti si proietteranno e saranno altrettanto contenuti, nonostante la scomposizione della vita e delle attività individuali. Cominceranno a verificarsi i modelli di città in cui ogni abitante è in grado di identificare un centro simmetrico, equilibrato e neutro in rapporto a tutte le parti di un recinto murato[11].
Le città, inoltre, sono sempre state il luogo della politica. Separare la disciplina politica dall’economia equivale a liberare ambedue dalla trama in cui sono fortemente legate[12]: compito avventuroso e magari distruttivo, oltre che inutile. Nonostante ciò, nella nostra cultura moderna i punti di vista economici sono stati staccati dalla politica[13]. Non esiste alcun modo, in senso ristretto, per distinguere la cultura economica dalla cultura politica. Anche l’approccio antropologico scoraggia la separazione, anzi, la sua grande aspirazione è riunire le varie questioni che il metodo analitico fece artificialmente disperdere. Non esiste nulla nella vita reale, inoltre, che sia simile ad una economia come rappresentazione autonoma di sé stessa.
Capire questo concetto è di fondamentale importanza per riflettere sull’uso “strumentale” delle moderne teorie sulla città. L’economia è un artefatto costruito. È impossibile, dal punto di vista epistemologico, che la stessa disciplina che lo costruisce precisi come lo abbia fatto. L’unica forma sarebbe cercare il suo posto nella formazione ideologica della cultura occidentale. Una supposizione economica non è mai vera o falsa[14]. Come la scienza, l’economia non è stata sviluppata nel vuoto, ma in un campo ideologico definito per rappresentazioni di percezioni comuni. Basti pensare che gli esempi illustrati nella storia economica, attingono necessità e motivazioni in un luogo preciso, nell’Europa e, in particolare, nell’Inghilterra dell’Ottocento. Questi contesti sono stati fatti validi per tutto il mondo e, non solo, sono stati proiettati avanti e indietro nella storia della costruzione della disciplina economica.
Sino alla fine del XIX secolo, gli argomenti urbani non interessavano alle speculazioni o alle prassi scientifiche[15]. Esisteva già, e ben definito, il tecnico specializzato che operava nella città. La sua competenza, però, era tutt’altra. Nei secoli XVII, XVIII e XIX gli argomenti urbani sono di competenza dell’Accademia di Belle Arti. La preoccupazione di queste ultime coincide con quello che oggi potrebbe essere chiamato “disegno della città” o della “buona forma urbana”. Il disegno di abbellimento della città (che non può ancora definirsi “urbanistica”) era una questione d’arte, non una questione di scienza, e quindi diversa della disciplina come modernamente è intesa.  I fautori del potere politico assolutista, di seguito borghese, trovano inspirazione, sede e simbologia nei nuovi modelli di città e sono desiderosi di applicare queste nuove conoscenza agli spazi reali. Si accorgono, con intelligenza, di quanto le vie, i palazzi e i monumenti aiutano ad impostare il nuovo mondo e le nuove relazioni sociali. Vi è un grande sforzo di disciplina che, partendo dalle roccaforti dei potenti, si estende a tutte le città, rendendole belle e “trasparenti” al nuovo modello. Le capitali sono usate come specchi didattici[16] che servono da modello ai cittadini e ai nuovi Stati nascenti. Servono anche agli obiettivi di controllo degli Stati nazionali, per uso interno ed esterno.
Simultaneamente a questo intenso processo di trasformazione sociale ed economica, in Europa cominciano ad affermarsi i principi del Razionalismo Illuministico. Questi principi andranno a sfociare, nel XIX secolo, nell’applicazione pratica di questa nuova conoscenza. Nasce la scienza. È in questo periodo, per esempio, che ha inizio l’evoluzione della medicina[17]. Comincia una vera e propria corsa all’“oro scientifico”. Vi è la fretta a inventare tanti settori e sub-settori delle discipline che si propongono di coprire e di spiegare tutto ciò che può essere percepito dal cervello e dai sensi umani.
La conoscenza concernente lo spazio come forte valore simbolico vive invece una fase di ritrazione. Già da un po’ di tempo si viaggia contro-corrente. Quando l’Europa ancora non concepiva il pensare “al di fuori” dei principi scolastici (dal XII al XIV secolo), l’architettura (e, per estensione, quello che fa riferimento all’ambiente prodotto) ha raggiunto un apice[18]. In questa occasione, non era raro che fisici e medici, avessero come premio, il rogo. Nei quattrocento anni successivi, l’importanza sociale e politica degli architetti è andata in declino, mentre la stella dei vecchi “ciarlatani” ascendeva. Le traiettorie opposte di queste professioni non sono estranee alla frammentazione post-rinascimentale[19]. Gli empiristi, liberi dalle restrizioni religiose, hanno avuto allora l’occasione di riflettere sulle loro sperimentazioni, finalmente consentite. Nella città degli uomini, in contropartita, il costruttore non è più l’interprete divino degli ordini esoterici. Comincia ad essere spinto in uno dei molteplici settori della nuova conoscenza - l’arte - e perde l’antica importanza di elemento chiave per l’aggregazione delle conoscenze. Come accade sempre nella storia umana, il declino inizia, quando si raggiunge l’auge. Gli urbanisti e gli architetti di allora godevano di uno straordinario prestigio. Proprio per l’accettazione della supremazia intellettuale in questi luoghi vissuti, hanno avuto una terribile capacità di diffondere parte delle loro idee che, poi in futuro, avrebbero emarginato i propri colleghi.
Nel plasmare lo Stato Moderno sono stati attribuiti ai medici ed agli architetti/pianificatori ruoli diversi. All’inizio della “scientifizzazione” ufficiale delle professioni, ai medici è stato dato il compito fondamentale del conteggio delle persone e dell’identificazione delle loro condizioni di salute. Con ciò, le potenze emergenti, erano in grado di pianificare le attività economiche (sapevano che la forza lavoro avrebbe potuto produrre beni esportabili) e politiche (erano consapevoli di quanti uomini avrebbero potuto mobilizzare per le guerre). Quanto agli specialisti dello spazio, è stato ordinato il compito di esprimere, attraverso un repertorio di simboli monumentali[20], quello che sarebbe stato il nuovo status quo. Per le nazioni europee, preoccupate con le questioni di definizione, si trattava di investire tanto in motivazioni pratiche quanto in nuovi segni. Non la pura materialità, ma anche l’idealismo è stato richiesto agli architetti nel “simbolismo” della nuova cultura borghese. Questa è la ragione per cui la disciplina architettonica comincia il suo percorso di decadimento. In questo nuovo ordine hanno vinto le scienze applicate. Alle altre forme di conoscenza è rimasta solo la possibilità di conversione. Fatta a qualunque costo.
 



 

[1]   Sulla disgregazione del pensiero nell’Occidente che finì per generare una atomizzazione della scienza nel XIX secolo vedere Koirè A. (Filosofia e storia delle scienze e Dal mondo chiuso all’universo infinito), Focault M. (Le parole e le cose) e Polanyi K. (La grande trasformazione).
[2]   Durkheim É. (Le forme elementari della vita religiosa) e Levi-Strauss C. (Il pensiero selvaggio) hanno studiato il passaggio dei sistemi classificatori antichi e tradizionali al pensiero moderno “scientifico”. 
[3]  L’origine del “sapere”, nell’Occidente, come unica forma di soluzione per la società è trattato da Berlin, I. (Four Essays on liberty).
[4]  In Saggi sull’individualismo - Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna, Dumont L. opera  una contrapposizione tra l’olismo e l’individualismo.
[5]  Secondo Bucley W. (A sociologia e a Moderna Teoria dos Sistemas), i sistemi sociali sarebbero aperti e intenzionali. Lo standard socio-culturale è generato dalle regole e dalle interazioni tra gli individui e  i sotto gruppi.
[6]  Berlin I. in Four Essays on liberty, costata che “siamo ciò che siamo per cause naturali e quando saremo in grado di capire queste cause saremo anche in grado di essere in armonia con la natura”.
[7]  Marx in Les Luttes de Classes en France dimostra la complessità delle sintesi congiunturali in rapporto alle analisi strutturali.
[9]  L’architetto, urbanista e antropologo, il professore Santos C. N. F. dos, Università Federale Fluminense e Università di Rio di Janeiro, nella sua tesi dottorato Formações Metropolitanas no Brasil, Mecanismos Estruturante, discute la molteplicità dei significati sovrapposti e il pericolo del riduzionismo nei tentativi di rappresentazioni di essi.
[10] Cfr. Lévi-Strauss C. in Razza e storia e altri studi di antropologia e  Mumford L. in La città nella storia e Halbwachs M. in Chicago. Morfologia sociale e migrazioni.
[11]  “Per quelli che hanno idealizzato lo Stato moderno niente potrebbe essere più attrattivo che una città/macchina che servisse anche come modello di disciplina e allo stesso tempo rivelasse tutto ed “informasse” la forma delle relazioni tra persone e cose e tra presone e persone”. (Santos C. N. F. dos, in Formações Metropolitanas no Brasil, Mecanismos Estruturante).
[12]    Dumont L. in Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia moderna sostiene il profondo legame tra politica ed economia nel contesto delle città.
[13]    Santos C. N. F. dos, in Formações Metropolitanas no Brasil, Mecanismos Estruturante e Dumont L. in Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull'ideologia moderna dimostrano che l’economia come scienza nasce in un contesto dove esistevano rappresentazioni “non scientifiche” di senso comune e si sviluppa a partire da un impulso ideologico che ha influenzato pesantemente il suo corso, quanto meno nel principio della sua evoluzione come disciplina.
[14]    Cfr. Galimberti F. (2002), Economia e pazzia crisi finanziarie di ieri e di oggi, Laterza, Bari.
[15] La nascita della pianificazione urbana moderna non coincide con i movimenti tecnici e economici che crearono e trasformarono la città industriale. È sorta più tardi, quando questi cambiamenti cominciarono ad estendersi e a generare conflitti (Cfr. Benevolo, L. in Le origini dell’urbanistica moderna).
[16] “L’architettura è il gran libro dell’umanità … per seimila anni, dalla più remota pagoda dell’Indostan fino alla cattedrale di Colonia, è stata la grande scrittura dell’umanità, e ciò è talmente vero che non solo ogni simbolo ma anche ogni pensiero umano ha la sua pagina in questo immenso libro di monumenti”. Victor Hugo.
[17] Foucault M. in Nascita della clinica e Illich I. in Tecno-politica esplorano l'evoluzione dalla stregoneria alle scienze mediche attuali.
[18] Panofsky E. in Architettura gotica e filosofia scolastica svela brillantemente il processo in cui, interpretando un complesso corpo teorico, progressivamente gli artigiani costruttori raggiungevano lo status di saggi, esecutori in pietra di tesi e dimostrazioni metafisiche.
[19] Cfr. Foucault M. in Nascita della clinica.
[20] Sull’uso dell’architettura come codice simbolico vedere Bonta J. P. (1981) e Sahlins M. (1982) che dimostrano come la razionalità pratica si è trasformata nella mitologia propulsore della cultura borghese.


       



Fonte :  si ringrazia l'architetto Maria de Fatima Sabaini Gama (  mgsabaini@unisa.it  ) che ha cortesemente inviato il suo scritto alla Redazione del Portale.  
Per approfondimenti si consiglia il libro:  SABAINI GAMA MARIA DE FATIMA , L'architettura dell'edilizia residenziale pubblica e la costruzione della città moderna e contemporanea , Gangemi Editore, Roma, 2012.  














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