LE AREE URBANE
DEGRADATE
Introduzione e presupposti
di Maria de Fatima Sabaini Gama
INTRODUZIONE
Il problema della riqualificazione delle aree urbane
degradate non è ancora “centrale” nelle politiche di sviluppo delle città. Se
esistesse, infatti, una reale coscienza dei problemi di cui soffrono le
periferie e di come una loro riqualificazione contribuirebbe in modo
fondamentale allo sviluppo sostenibile delle città stesse, si presenterebbe
allora davanti una lunga strada da percorrere per inquadrarne la problematica.
Il 2006 è stato l’anno in cui è diventata urbana il
50% della popolazione mondiale e le previsioni affermano che questa
proporzione raggiungerà il 75 % nel 2050. Nelle periferie vive oramai circa 70%
della popolazione globale.
Nella sua accezione originale il termine “periferia”
fa riferimento ad una circonferenza, un luogo esterno e lontano dal centro. Così
è il caso degli “arrondissement” parigini e delle lottizzazioni in
Brasile. Sono gli ultimi spazi abitati della città prima delle campagne.
Tuttavia Renzo Piano (La Repubblica, 22/11/2005) sostiene che il termine
periferia ha perso il suo valore di sostantivo per trasformarsi in un aggettivo
volto a qualificare uno spazio “dove i valori della città - l’incontro, il
lavoro, lo scambio fisico - muoiono. Quei valori della città che per estensione
diventano urbanità, civitas e quando mancano producono odio”. In questo caso, la
periferia non è più solo quello spazio lontano dal centro, ma è anche un spazio
non controllato all’interno del tessuto urbano dove si realizza il meccanismo di
esclusione.
Nel Convegno nazionale INU (Napoli/Marzo/2007) -
Territori e Città del Mezzogiorno. “Quante periferie? Quali politiche di governo
del territorio”, sono state identificate almeno cinque classificazioni di
periferie, secondo la sua nuova accezione. Lo studio era dedicato alla Regione
Campania, in Italia, ma certamente il concetto può essere esteso nella macchia
urbana globale:
1.
Le periferie monofunzionali
pianificate (le Vele di Scampia, le banlieues francesi, gli insediamenti BNH
brasiliani, ecc.);
2.
Le periferie della periferia, con
aspetti multiformi tra azione dello Stato e speculazione private (tutta l’area
metropolitana a Nord di Napoli e la periferia prodotta nelle grandi città
brasiliane, ecc.),
3.
I “centri storici” delle periferie,
abitati quasi esclusivamente da extracomunitari -“l’extraperiferia”- luoghi di
filtro e di accoglienza, mediazione culturale (caratteristiche delle città del
primo mondo come il quartiere napoletano di Pianura);
4.
La periferia nei centri storici
degradati delle grandi città (i Quartieri Spagnoli, il centro storico di
Palermo, la piazza Mercato a Napoli, il centro di San Paolo, ecc.)
5.
Le periferie “provvisorie” (periferia
post terremoto in Campania, le favelas in Brasile, gli slums del Terzo Mondo,
ecc.).
Le periferie vengono genericamente considerate come
il male principale delle nostre realtà urbane, sociali ed economiche; esse però
rappresentano la parte più considerevole delle città, e soprattutto la storia
urbana ed architettonica degli ultimi cinquant'anni. Nei quartieri periferici
spesso, infatti, si è in presenza di un tessuto associativo assai ricco e di una
capacità di auto-organizzazione degli abitanti, che ha permesso lo sviluppo di
numerose realtà in grado di lavorare con successo sul territorio.
Urge l’esigenza di avviare un ampio e serio
dibattito sulla sorte di questi ambiti e contemporaneamente di individuare le
linee di intervento per riqualificare questi tessuti, producendo analisi capaci
di affrontare il tema a partire dalla considerazione che fanno riferimento a
luoghi con risorse capaci di superare le loro stesse criticità. Infatti, il
problema deve essere affrontato come un normale processo di
trasformazione/evoluzione e non come un processo di degrado/reclusione (Franz e
Leader, 2003).
Saskia Sassen, in una ricerca per l’Università di
Chicago e per London School of Economics, afferma che il potere decisionale si
va concentrando in alcuni luoghi, quelli in cui vengono prese le decisioni e
avviati i processi che riproducono i dispositivi di accumulazione su scala
mondiale. Sono centri di potere che divengono sempre più puntuali, da cui si
irradiano le reti di comunicazione e di informazione e che danno senso
all’economia del pianeta. Questi centri ancora interagiscono con gli Stati
Nazionali, ma sono solo in attesa della loro definitiva decadenza. All’esterno
dei perimetri disegnati da questi poteri, aumenta l’estensione delle periferie.
Non esiste più un centro, ma una pluralità di centri che, comunque, ignora la
periferia. Favorendo le relazioni con gli altri centri si crea una relazione con
la periferia unicamente attraverso dinamiche di sfruttamento, di utilizzo
occasionale e predatorio.
Nel Terzo Mondo, questo processo è continuamente in
crescita, negando le conquiste acquisite, mentre in Europa si verificano
discontinuità nel corso degli ultimi venti anni nell’uso degli strumenti di
programmazione, ma a cui non si è affiancata una seria volontà di recupero
condivisa. C’è da rilevare, inoltre, che il dibattito sul riuso delle aree
urbane degradate è ancora molto lontano dal trovare soluzioni.
Esistono numerose relazioni di dipendenza
centro/periferia che vanno crescendo o decrescendo secondo la prospettiva
scelta. Il Terzo Mondo è la periferia dell’Europa e viceversa l’Europa è centro
per il Sud-America e tante altre regioni dell’Africa e dell’Asia. Se si
verificasse la previsione di Sassen, è possibile che in Europa, in un tempo
relativamente breve, comincino ad spuntare tante situazioni con caratteristiche
e problematiche tipiche del Terzo Mondo. Di qui la necessità di comprendere
questi ambiti in una forma più ampia possibile.
Studiare parallelamente la realtà brasiliana,
cosiddetta periferica, e quella Europea cosiddetta centrale è stata una grande
sfida. Ma anche in realtà così diverse si sono verificate similarità ed
esperienze da poter scambiare e speriamo, dare un contributo alla ricerca di
soluzioni più concrete e praticabili.
PRESUPPOSTI...
Dal Rinascimento in poi, la società occidentale
inizia un processo di agitazioni e trasformazioni che si estende per cinque
secoli. Cessano i totalitarismi assoluti religiosi. Gradualmente l’insieme di
oggetti, fenomeni percettibili e le loro rispettive rappresentazioni si vanno
disgregando in campi autonomi. Partendo da un tessuto sociale coerente, la
stessa idea di una cultura che consacrava ad ogni individuo, gruppo o cosa una
posizione definita nell’universo, tutto quello che prima era indiviso,
comincia a dissociarsi in aree indipendenti. La politica fa un lungo percorso
che parte da Machiavelli e arriva alla Rivoluzione Francese e alla formulazione
dei Diritti Umani. Nel XIX secolo l’economia subisce una radicale separazione e
le dottrine cominciano a privilegiare, soprattutto, il ruolo del mercato. La
produzione artistica e quella intellettuale seguono lo stesso percorso. Infine,
la forma di pensare, scientificamente oggettivata, è esaltata come formula
ultima di spiegazione dell’esistenza. La religione è spinta ai recinti laici,
dovendosi conformare con la “specializzazione” del sacro. Alla strutturazione
dell’individuo corrisponde l’“individualizzazione” della conoscenza e delle
azioni decorrenti da questo processo. Lo spirito moderno finisce racchiuso in
una trappola che è la sua stessa tragedia; ossia, avendo risolto l’enigma
dell’universo, l’umanità si scontra con l’enigma di se stessa[1].
L’uomo occidentale si piega alla ragione[2].
Secondo i parametri della cultura borghese, quasi inconsci oramai, egli ritiene
che ragionando in forma corretta e sistematica deluciderà il mondo. Conquisterà
il potere illimitato allorché individuerà un sistema di classificazione assoluta
e riuscirà ad applicarlo a tutto ciò che esiste. Questa ambizione del
potere-sapere è pienamente sostanziata nelle successive generazioni di
computer, macchine per ordinare e memorizzare le informazioni con rapidità ed
efficienza irraggiungibili per il cervello umano[3].
Gradualmente si va istituendo un rigido confine tra
le attività di analisi e quelle di sintesi. Le analisi
cercano si scomporre, dissecare le cose di cui si occupano. L’obiettivo finale è
quello di trovare e capire i principi fondamentali che determinano le unità,
fino alle loro espressioni più elementari. In questo processo convergono la
fiducia nella razionalità con la superiorità storica e intellettuale
della cultura borghese, con i concetti di permanenza, di struttura, di autonomia
economica e di competenze[4].
Questi concetti sono la base metodologica del pensiero scientifico.
Corrispondono al sapere erudito, legittimato, condiviso in tutti i luoghi della
cultura Occidentale; rappresentano la forma ufficiale e più elevata di
cognizione dei fenomeni naturali e sociali.
Le attività di sintesi si occupano di
collegare elementi che nel processo di analisi sono considerati separatamente,
in maniera neutra e universale, apparentemente senza rapporti logici tra loro.
Si esegue il tutto attraverso pratiche concrete e specifiche forme di
raggruppamento. Non si tratta quindi di un processo casuale. I suddetti processi
sono stati resi possibili attraverso un
sistema di significati[5]
che agiscono come codici grammaticali, secondo regole etimologiche e
sintattiche. Viste attraverso questo prisma, le connessioni tra gli individui e
le rispettive società, anche se rispettano determinati standard, ammettono
le divergenze, l’ambiguità, la contraddizione e i cambiamenti. Sono tutte
possibilità previste dalle regole del gioco. Il ricorso alla metafora e a
meccanismi simili tra loro, permette traduzioni, consente scambi di livelli e
permette/autorizza collegamenti tra simboli appartenenti a sistemi diversi.
Tutto ciò senza distruggere le varie logiche di classificazione. Le
associazioni sono all'ordine del giorno, con una cultura vivace che aggiorna,
che supera la tradizione e le sue norme disciplinanti nei rapporti familiari e
nella convivenza umana. Questa nuova cultura produce nuovi concetti di
gerarchia, di contratti e di accordi di potere, sia globali che congiunturali.
La sintesi si basa sul senso comune, quel vasto repertorio di credenze e
conoscenze generate e accettate collettivamente, sorta di piattaforma che
giustifica e subordina l’insieme delle decisioni nel quotidiano.
Nonostante ciò, l’analisi dei fatti riguardanti la
società e la storia non può avere carattere previsionale. È nella sua essenza il
carattere ex post facto. Non ci sono leggi, come quelle di natura fisica,
nelle scienze sociali, perché gli enunciatori non hanno un laboratorio per
monitorare le condizioni che possono influenzare il comportamento delle
variabili. I suoi “oggetti” spesso usano contraddire con irriverenza il
ricercatore e i soggetti hanno la “cattiva abitudine” di interagire tra loro e
con quelli che si sono proposti di studiarli. Le attività di analisi finiscono
sempre con l'acquisire un carattere critico e non compromesso quando l’oggetto
di studio è il sistema urbano. Tuttavia, è sempre più facile continuare
ad analizzare. Se la situazione considerata diverge dal modello che ha ispirato
la ricerca, allontanandosi dai termini originari dell’ipotesi, è sempre
possibile ricorrere a un “probabile abbaglio” degli attori, all’inconsapevolezza
degli “oggetti di studio” e del loro ruolo nella storia oppure ad altre
spiegazioni analoghe. Questo comportamento è un’ottima prova dell'autoritarismo
semplicista e della deformazione strumentale di coloro che pretendono di vivere
la scienza come religione[6].
I mezzi utilizzati, infatti, per fare una presupposta analisi “asettica” sono
essi stessi caricati dai valori culturali di un determinato tempo e
luogo. Ovvero sono compromessi con situazioni/processi di sintesi.
Ciò che viene chiamato sintesi è la vita stessa.
Essa non può essere riassunta in espressioni raffinate e sequenziali di una
lettura che, oltretutto, sceglie cosa sottolineare e come farlo. Nelle versioni
vernacolari, spesso confuse, i principi strutturanti sono appena percettibili[7].
È proprio questo stato di confusione che alla fine rappresenta la propria
vita, che permette agli uomini l’atto di fare e creare, attività che è
caratterizzata da continui andare e venire. Tanto il fare come il creare,
infatti, sono ri-elaborazioni di modelli latenti o potenziali che, per
definizione, devono esistere e trovare un sostegno all’interno di un determinato
gruppo sociale. In architettura, un settore che appartiene ai domini della
creatività, Gaudì ci insegna che “essere originale è tornare alle radici”.
Lo stesso può essere detto in merito alle azioni della vita quotidiana. Queste
azioni hanno un enorme potenziale innovativo nell’atto di riproporre quello che,
per incorporazione, sembra passato o smarrito. In questi viaggi esplorativi,
tuttavia, la strada scientifica non è quella più adeguata. Abbiamo
bisogno di un nord morale perché le società possano prendere coscienza
della loro posizione nello spazio, perpetuando le organizzazioni anteriori e
afferrando in ciò il loro futuro[8].
La questione dei rapporti sociali pone ancora
un’altra problematica: la difficoltà di essere rappresentata. Su un particolare
spazio fisico e sociale compatto come spesso sono le città, i rapporti sono
segnati da molti ordini[9].
La loro espressione comporta un impegno molto complesso. Documenti, collegamenti
e confronti in questo ambito non esistono nel loro stato puro. L’attività
sociale nasce dalla quotidiana intermediazione dei suoi diversi “interpreti”. Il
ricercatore è soltanto qualcuno che compie un'ennesima lettura. La sua versione
sarà solo una in più, con la peculiarità di avere una determinata erudizione
scientifica. La più completa rappresentazione di queste realtà non riuscirà mai
a renderle come effettivamente sono. Consisterà appena in una selezione di
simboli che sosterranno la sua analisi. La lettura sintetica delle
situazioni reali fornirà la versione definitiva di tutte le rappresentazioni
che, a loro modo, saranno forme diverse di percepire le cose.
I modelli di organizzazione e sistematizzazione per
la comprensione globale delle città nelle loro formulazioni più scientifiche
(modelli matematici) furono molto utilizzati negli anni Sessanta in Brasile. I
tentativi di applicazione hanno dimostrato che, per questi modelli, le variabili
venivano spesso selezionate, messe in relazione e sintetizzate in forma più o
meno arbitraria. Non esiste quindi nessuna garanzia che un determinato aspetto
incommensurabile o irreperibile possa essere abbandonato. Le incertezze circa il
funzionamento del sistema non permettono all’analista di andare oltre le
ovvietà. Va osservato che le città sono tra le più complesse invenzioni della
storia[10],
ed è proprio questa complessità che ha assicurato loro la sopravvivenza
attraverso il tempo. L’uso di strumenti per pensare l’urbano (metodi, modelli,
teorie) implica la necessità di una analisi critica mano a mano che essi vengono
sistematicamente utilizzati.
Il trattamento scientifico di temi come la città, lo
spazio e l’architettura è molto tardivo: solo nel Rinascimento l’Occidente
comincia a pensare al mondo e alla società attraverso l’individuo. Mediante
l’analisi era possibile ottenere ordini perfetti che servivano come
modelli prospettici utili alla correzione dei disordini della pratica. Le
utopie, prima contenute entro i limiti della religione e della speculazione
morale e filosofica, sono state portate al mondo secolarizzato. Inventato
nell’ambito della città e attraverso condizioni specifiche, l’esercizio politico
sorgerà naturalmente come dominio autonomo nelle aree urbane. È nelle città che
si formano le istituzioni che creano e garantiscono i diritti di cittadinanza,
contrattati dalle assemblee di individui liberi che si riconoscono come uguali e
che, in questi termini, fanno patti reciproci e collettivi. La natura dialettica
di questo rapporto è espressa fin dall’inizio. La disgregazione del vecchio
ordine, che cede il posto al nuovo ordine borghese, richiederà un simbolo che
venga a sovrapporsi, per la sua forza sintetica, a tutti gli interessi sparsi
fino ad allora. La città ideale di Dio, irraggiungibile, è sostituita da una
idealizzazione della città fatta dagli uomini. Questa sarà il luogo dove tutti
si proietteranno e saranno altrettanto contenuti, nonostante la scomposizione
della vita e delle attività individuali. Cominceranno a verificarsi i modelli di
città in cui ogni abitante è in grado di identificare un centro simmetrico,
equilibrato e neutro in rapporto a tutte le parti di un recinto murato[11].
Le città, inoltre, sono sempre state il luogo della
politica. Separare la disciplina politica dall’economia equivale a liberare
ambedue dalla trama in cui sono fortemente legate[12]:
compito avventuroso e magari distruttivo, oltre che inutile. Nonostante ciò,
nella nostra cultura moderna i punti di vista economici sono stati staccati
dalla politica[13].
Non esiste alcun modo, in senso ristretto, per distinguere la cultura economica
dalla cultura politica. Anche l’approccio antropologico scoraggia la
separazione, anzi, la sua grande aspirazione è riunire le varie questioni che il
metodo analitico fece artificialmente disperdere. Non esiste nulla nella vita
reale, inoltre, che sia simile ad una economia come rappresentazione autonoma di
sé stessa.
Capire questo concetto è di fondamentale importanza
per riflettere sull’uso “strumentale” delle moderne teorie sulla città.
L’economia è un artefatto costruito. È impossibile, dal punto di vista
epistemologico, che la stessa disciplina che lo costruisce precisi come lo abbia
fatto. L’unica forma sarebbe cercare il suo posto nella formazione ideologica
della cultura occidentale. Una supposizione economica non è mai vera o
falsa[14].
Come la scienza, l’economia non è stata sviluppata nel vuoto, ma in un campo
ideologico definito per rappresentazioni di percezioni comuni. Basti pensare che
gli esempi illustrati nella storia economica, attingono necessità e motivazioni
in un luogo preciso, nell’Europa e, in particolare, nell’Inghilterra
dell’Ottocento. Questi contesti sono stati fatti validi per tutto il mondo e,
non solo, sono stati proiettati avanti e indietro nella storia della costruzione
della disciplina economica.
Sino alla fine del XIX secolo, gli argomenti urbani
non interessavano alle speculazioni o alle prassi scientifiche[15].
Esisteva già, e ben definito, il tecnico specializzato che operava nella città.
La sua competenza, però, era tutt’altra. Nei secoli XVII, XVIII e XIX gli
argomenti urbani sono di competenza dell’Accademia di Belle Arti. La
preoccupazione di queste ultime coincide con quello che oggi potrebbe essere
chiamato “disegno della città” o della “buona forma urbana”. Il disegno di
abbellimento della città (che non può ancora definirsi “urbanistica”) era una
questione d’arte, non una questione di scienza, e quindi diversa della
disciplina come modernamente è intesa. I fautori del potere politico
assolutista, di seguito borghese, trovano inspirazione, sede e simbologia nei
nuovi modelli di città e sono desiderosi di applicare queste nuove
conoscenza agli spazi reali. Si accorgono, con intelligenza, di quanto le vie, i
palazzi e i monumenti aiutano ad impostare il nuovo mondo e le nuove
relazioni sociali. Vi è un grande sforzo di disciplina che, partendo dalle
roccaforti dei potenti, si estende a tutte le città, rendendole belle e
“trasparenti” al nuovo modello. Le capitali sono usate come specchi didattici[16]
che servono da modello ai cittadini e ai nuovi Stati nascenti. Servono anche
agli obiettivi di controllo degli Stati nazionali, per uso interno ed esterno.
Simultaneamente a questo intenso processo di
trasformazione sociale ed economica, in Europa cominciano ad affermarsi i
principi del Razionalismo Illuministico. Questi principi andranno a sfociare,
nel XIX secolo, nell’applicazione pratica di questa nuova conoscenza. Nasce la
scienza. È in questo periodo, per esempio, che ha inizio l’evoluzione
della medicina[17].
Comincia una vera e propria corsa all’“oro scientifico”. Vi è la fretta a
inventare tanti settori e sub-settori delle discipline che si propongono di
coprire e di spiegare tutto ciò che può essere percepito dal cervello e dai
sensi umani.
La conoscenza concernente lo spazio come forte
valore simbolico vive invece una fase di ritrazione. Già da un po’ di tempo si
viaggia contro-corrente. Quando l’Europa ancora non concepiva il pensare “al di
fuori” dei principi scolastici (dal XII al XIV secolo), l’architettura (e, per
estensione, quello che fa riferimento all’ambiente prodotto) ha raggiunto un
apice[18].
In questa occasione, non era raro che fisici e medici, avessero come premio, il
rogo. Nei quattrocento anni successivi, l’importanza sociale e politica degli
architetti è andata in declino, mentre la stella dei vecchi “ciarlatani”
ascendeva. Le traiettorie opposte di queste professioni non sono estranee alla
frammentazione post-rinascimentale[19].
Gli empiristi, liberi dalle restrizioni religiose, hanno avuto allora
l’occasione di riflettere sulle loro sperimentazioni, finalmente consentite.
Nella città degli uomini, in contropartita, il costruttore non è più
l’interprete divino degli ordini esoterici. Comincia ad essere spinto in uno dei
molteplici settori della nuova conoscenza - l’arte - e perde l’antica importanza
di elemento chiave per l’aggregazione delle conoscenze. Come accade sempre nella
storia umana, il declino inizia, quando si raggiunge l’auge. Gli urbanisti e gli
architetti di allora godevano di uno straordinario prestigio. Proprio per
l’accettazione della supremazia intellettuale in questi luoghi vissuti, hanno
avuto una terribile capacità di diffondere parte delle loro idee che, poi in
futuro, avrebbero emarginato i propri colleghi.
Nel plasmare lo Stato Moderno sono stati attribuiti
ai medici ed agli architetti/pianificatori ruoli diversi. All’inizio della
“scientifizzazione” ufficiale delle professioni, ai medici è stato dato il
compito fondamentale del conteggio delle persone e dell’identificazione delle
loro condizioni di salute. Con ciò, le potenze emergenti, erano in grado di
pianificare le attività economiche (sapevano che la forza lavoro avrebbe potuto
produrre beni esportabili) e politiche (erano consapevoli di quanti uomini
avrebbero potuto mobilizzare per le guerre). Quanto agli specialisti dello
spazio, è stato ordinato il compito di esprimere, attraverso un repertorio di
simboli monumentali[20],
quello che sarebbe stato il nuovo status quo. Per le nazioni europee,
preoccupate con le questioni di definizione, si trattava di investire tanto in
motivazioni pratiche quanto in nuovi segni. Non la pura materialità, ma anche
l’idealismo è stato richiesto agli architetti nel “simbolismo” della nuova
cultura borghese. Questa è la ragione per cui la disciplina architettonica
comincia il suo percorso di decadimento. In questo nuovo ordine hanno vinto le
scienze applicate. Alle altre forme di conoscenza è rimasta solo la possibilità
di conversione. Fatta a qualunque costo.
[1]
Sulla disgregazione del pensiero
nell’Occidente che finì per generare una atomizzazione della scienza nel
XIX secolo vedere Koirè A. (Filosofia e storia delle scienze e
Dal mondo chiuso all’universo infinito), Focault M. (Le parole e
le cose) e Polanyi K. (La grande trasformazione).
[2] Durkheim
É. (Le forme elementari della vita religiosa) e Levi-Strauss C. (Il
pensiero selvaggio) hanno studiato il passaggio dei sistemi
classificatori antichi e tradizionali al pensiero moderno
“scientifico”.
[3]
L’origine del “sapere”, nell’Occidente, come unica forma di soluzione
per la società è trattato da Berlin, I. (Four Essays on liberty).
[4]
In Saggi sull’individualismo - Una prospettiva antropologica
sull’ideologia moderna, Dumont L. opera una contrapposizione tra l’olismo
e l’individualismo.
[5]
Secondo Bucley W. (A sociologia e a Moderna Teoria dos Sistemas),
i sistemi sociali sarebbero aperti e intenzionali. Lo standard
socio-culturale è generato dalle regole e dalle interazioni tra gli
individui e i sotto gruppi.
[6]
Berlin I. in Four Essays on liberty, costata che “siamo ciò che siamo
per cause naturali e quando saremo in grado di capire queste cause
saremo anche in grado di essere in armonia con la natura”.
[7]
Marx in Les Luttes de Classes en France dimostra la complessità
delle sintesi congiunturali in rapporto alle analisi strutturali.
[9]
L’architetto, urbanista e antropologo, il professore Santos C. N. F.
dos, Università Federale Fluminense e Università di Rio di Janeiro,
nella sua tesi dottorato Formações Metropolitanas no Brasil,
Mecanismos Estruturante, discute la molteplicità dei significati
sovrapposti e il pericolo del riduzionismo nei tentativi di
rappresentazioni di essi.
[10]
Cfr. Lévi-Strauss C. in Razza e storia e altri studi di antropologia
e
Mumford L.
in La città nella storia e Halbwachs M. in
Chicago. Morfologia sociale e migrazioni.
[11]
“Per quelli che hanno idealizzato lo Stato moderno niente potrebbe
essere più attrattivo che una città/macchina che servisse anche come
modello di disciplina e allo stesso tempo rivelasse tutto ed
“informasse” la forma delle relazioni tra persone e cose e tra presone e
persone”. (Santos C. N. F. dos,
in Formações Metropolitanas no Brasil, Mecanismos Estruturante).
[13]
Santos C. N. F. dos, in Formações Metropolitanas no Brasil,
Mecanismos Estruturante e
Dumont L.
in Saggi
sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull'ideologia
moderna dimostrano che l’economia come scienza nasce in un contesto
dove esistevano rappresentazioni “non scientifiche” di senso comune e si
sviluppa a partire da un impulso ideologico che ha influenzato
pesantemente il suo corso, quanto meno nel principio della sua
evoluzione come disciplina.
[14]
Cfr. Galimberti F. (2002), Economia e pazzia crisi finanziarie di
ieri e di oggi, Laterza, Bari.
[15]
La nascita della pianificazione urbana moderna non coincide con i
movimenti tecnici e economici che crearono e trasformarono la città
industriale. È sorta più tardi, quando questi cambiamenti cominciarono
ad estendersi e a generare conflitti (Cfr. Benevolo, L. in Le origini
dell’urbanistica moderna).
[16]
“L’architettura è il gran libro dell’umanità … per seimila anni, dalla
più remota pagoda dell’Indostan fino alla cattedrale di Colonia, è stata
la grande scrittura dell’umanità, e ciò è talmente vero che non solo
ogni simbolo ma anche ogni pensiero umano ha la sua pagina in questo
immenso libro di monumenti”. Victor Hugo.
[17]
Foucault M.
in Nascita della clinica e Illich I. in Tecno-politica
esplorano l'evoluzione dalla stregoneria alle scienze mediche attuali.
[18]
Panofsky E. in Architettura gotica e filosofia scolastica svela
brillantemente il processo in cui, interpretando un complesso corpo
teorico, progressivamente gli artigiani costruttori raggiungevano lo
status di saggi, esecutori in pietra di tesi e dimostrazioni
metafisiche.
[20]
Sull’uso dell’architettura come codice simbolico vedere Bonta J. P.
(1981) e Sahlins M. (1982) che dimostrano come la razionalità pratica si
è trasformata nella mitologia propulsore della cultura borghese.
Fonte :
si ringrazia l'architetto Maria de Fatima Sabaini Gama (
mgsabaini@unisa.it ) che ha
cortesemente inviato il suo scritto alla Redazione del Portale.
Per
approfondimenti si consiglia il libro: SABAINI GAMA MARIA DE FATIMA , L'architettura
dell'edilizia residenziale pubblica e la costruzione della città moderna e
contemporanea ,
Gangemi Editore, Roma, 2012.
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