lunedì 22 luglio 2019

FRANCESCO D'AYALA VALVA (1928) Architettura Organica Italiana, allievo di Frank Lloyd Wright


FRANCESCO D'AYALA VALVA   (1928)
Architettura Organica Italiana, allievo di Frank Lloyd Wright   

                
   
 
Francesco D'Ayala Valva, vinto il concorso Fulbright di architettura per l'Italia, ha lavorato con Frank Lloyd Wright - maestro dell'Architettura Organica - in Arizona e Wisconsin; in Messico con Mario Pani ed in proprio; a Roma come socio della Building design Partnership di Londra, ad attualmente in proprio.
Progetta case, complessi, fabbriche, chiese, ristrutturazioni, con giardini e/o sistemazioni nell'ambiente, in Italia, Belgio, Regno Unito, Liechtenstein, America Latina, Medio Oriente, Sudan, Gabon.
Le sue linee guida nella progettazione sono: il carattere dei committenti, le difficoltà del terreno (che considera la sua ricchezza fondamentale), i limiti economici e amministrativi e la continuità con l'ambiente, naturale o costruito con cui ricerca contrasto o accordo.
Attinge dallo Zen, soprattutto nei giardini, e dalla sua trasposizione nel giardino cosiddetto inglese, ma soprattutto dal paesaggio toscano e dall'integrazione in esso delle case coloniche, manifestazione esemplare e inconsapevole della capacità di trascendere povertà di materiali e cultura in sincerità, movimento e leggerezza.
 
 
Francesco D'Ayala Valva mentre modella la testa di Frank Lloyd Wright, 
Taliesin West, USA, 1953.
 
"...Perché ogni costruzione deve essere come un quadro (o nel migliore dei casi un volume, una scultura), un insieme di quadri, un insieme di facciate, senza rapporto con l'interno, o con la vita, senza cura o rapporto con l'orientamento, il cielo o con l'esterno ? Le finestre buchi in fila curandone solo la composizione in facciata ?
Il guaio è che, tra l'America recentissima e gigante, dagli spazi immensi e il cielo lontanissimo e l'Europa vecchissima e presepe leonardesco con cielo a portata di mano c'è un'enorme differenza di gratitudine.  E' un'adorazione esclusiva per le due dimensioni... (mentre l'America vive dovunque nelle tre dimensioni. O forse quattro e più).
Da noi, quindi, sembra dimenticata la lezione dell'Agorà e dell'Eretteo, del medioevo, del Borromini e del Bernini e della loro volontà di creare spazi, quello che la gente vive. Ignorato Hassan Fathy. Dimenticato il compito dell'architettura di esaltare l'individuo, non di solo ospitarlo. (L'abbraccio del colonnato di San Pietro dà valore a ogni individuo della folla, l'Aula Nervi schiaccia tutti, anche il Papa, per non parlare dell'ignobile antireligioso complesso di Padre Pio).
Dimenticato la gioia del passare del tempo, della patina. Anche quello della cristallina calce, così luminosa ed economica, così capace di arricchire, cambiando con gli anni, con i venti e la pioggia e con il sole, le superfici che ricopre, modulandole nel corso della giornata. Ignorata la fondamentale importanza dei rapporti, dei legami - con la natura - con gli altri edifici, presenti e possibili futuri, con il terreno tra di loro (di risulta!), che spesso è quello che la gente vive di più.
Ogni costruzione sembra voler essere un monumento, è fine a se stesso. Quanti dei disordini degli ultimi anni dipendono dallo squallore delle facciate unite sembra a caso nemica ciascuna della comunicazione, mentre Siena, i cui abitanti possono identificarsi fortemente con gli spazi, quartieri in cui vivono, le contrade (e da queste, tra l'altro è nato il Palio e quel magnifico terreno "di risulta" intorno al sale che è Piazza del Campo), non conosce un fatto di sangue da decine d'anni.
Tutto questo è ignorato o dimenticato. (Senza nessuna "scusa" economica: le facciate di Piazza del Campo sono di semplici mattoni). E pure questo è il pensiero dell'Architettura Organica, già presente dovunque, nell'architettura detta "classica", che noi ammiriamo appunto per le sue facciate, colonne e trabeazioni, il nostro linguaggio da "salotto buono" da duemila anni. Insieme con il risparmio energetico, ad essa connaturato. Basta lavorarci con un minimo di gratitudine.
Questo ho imparato dal "grido" di Mr. Wright. E dal contatto con il materiale, struttura e natura e con il pensiero dovunque nel mondo io abbia lavorato e lavori, della luce, dell'orientamento, dello spazio che devono creare, la forma viene da se.
"Take care of the terminals for the rest will take care of itself..." (prenditi cura delle finalità, per il resto si prenderà cura da sè...)
Francesco D'Ayala Valva
         
   





Foto della Casa alla Olgiata, Roma, progetto di Francesco D'Ayala Valva.




Inaugurazione Mostra su Frank Lloyd Wright a Villa Palagione, 
Volterra, 29 settembre 2007
Da sinistra (from left): Carlo Sarno (Presidente ADAO), Carmine Sarno (ADAO), Franco d'Ayala Valva (allievo di Wright a Taliesin), Kamal Amin (allievo di Wright a Taliesin), Giovanni Del Drago (allievo di Wright a Taliesin), Giulianno Chelazzi (curatore della Mostra e Presidente dell'Associazione Amici di Frank Lloyd Wright), Ivo Gabellieri (Vice-Presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio di Volterra).


 



 

Fonti : 

- Rivista CONTINUITA' DELL'ARCHITETTURA ORGANICA , N°1 - Aprile 2009, a cura dell'Associazione "Amici di Frank Lloyd Wright".
- Articolo su Sito web di Margarita Guarderas: www.margaritaguarderas.com/?q=taxonomy/term/137 


- DVD "La Casa del Padre", il documentario su suo padre l'architetto organico Franco d'Ayala Valva, di Sebastiano D'Ayala Valva (2010).


 
Un ritratto dell’architetto italiano Franco d’Ayala Valva realizzato da suo figlio, che tenta di capire il padre immergendosi nel sua vita e nel suo lavoro. Padre di sei figli e sposato tre volte, questo discepolo ottantenne del genio americano Frank Lloyd Wright, ha passato più di 50 anni a costruire case nel mondo e non ha nessuna intenzione di fermarsi, neanche durante un ricovero in ospedale. Il figlio segue la vita tumultuosa del padre sia al lavoro sia in famiglia, esplorando un’esistenza dove il confine fra la vita privata e la vita professionale è confusa. Dalle colline tondeggianti del Chianti, dove sta costruendo la sua casa da più di vent’anni, al deserto dell’Arizona, dove ha vissuto nella singolare comunità di Wright  - “Taliesin” , alle città del Messico  dove scopriremo se le sue prime opere sono ancora in piedi, “La Casa del Padre” documenta la ricerca d’identità  di un figlio e l’ultimazione delle ultime opere architettoniche di suo padre.












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