Giulio Carlo
Argan
INTRODUZIONE A
FRANK LLOYD WRIGHT
Taliesin West , di Frank Lloyd Wright
Le due
parole che più frequentemente ricorrono nelle teorie e nelle proposizioni degli
artisti contemporanei sono: astratto per la pittura e la scultura, organico per
l'architettura. quando di una forma si dice che è astratta si pone
implicitamente il quesito: rispetto a che cosa? Evidentemente rispetto a tutto
ciò che per noi è concreto, assodato, storico: alla nostra esperienza nel senso
più largo. Quella forma non rappresenta perché la rappresentazione presuppone il
dato dell'esperienza; quindi quella forma non ha un oggetto ma è un oggetto,
dotato di un'esistenza non più simbolica ma reale.
Quell'oggetto
si pone come pura realtà in quanto si eccettua dal mondo delle apparenze e le
contesta, e si pone come assoluto presente in quanto si eccettua dall'esperienza
o dalla natura, cioè dal passato. Perciò dopo aver detto che quella forma è
astratta rispetto alla natura, si afferma che, al contrario, proprio la
rappresentazione è un'astrazione e che soltanto la forma astratta o non
rappresentativa o non figurativa merita di essere considerata per eccellenza
concreta. Il primo Cubismo, il cosiddetto Cubismo scientifico, si propone di
attingere a una realtà essenziale attraverso la scomposizione delle apparenze.
Picasso, dice Breton, "trompe san cesser l'apparence avec la realité".
In questa
posizione è evidentemente implicita una contestazione radicale di tutto ciò che
è passato, storia o tradizione. E' implicita anche la contestazione del pensiero
idealistico e classicistico dell'arte come conoscenza; infatti quel contatto con
una realtà più profonda o essenziale non ammette un'oggettivazione, ma esige una
partecipazione, quasi una confusione con le realtà. E' anche evidente che la
realtà non può essere pensata come data o finita, ma come un continuo formarsi
ed evolvere, un crescere su se stessa.
Organico
è appunto il termine col quale si designa la legge vitale o di crescita della
realtà. Uno scultore astrattista, Moore, ricorre infatti al termine "organico"
per definire la ragione profonda delle sue forme; e lo contrappone a
"costruttivo". Costruttiva è la forma proporzionale, composta, geometrica;
organica la forma elementare. La forma costruttiva si esaurisce nell'assoluto
dello spazio, cioè dell'idea; la forma organica si riduce all'assoluto della
materia.
Nella
terminologia critica dell'architettura moderna il termine organico ha
ormai decisamente surrogato il termine razionale. Vale per questi due
concetti l'antitesi indicata tra organico e costruttivo. Si è chiamata razionale
l'architettura europea che ha fatto propria l'esperienza figurativa del Cubismo:
per indicarne soltanto i vertici, l'architettura di Le Corbusier e di Gropius.
Indubbiamente anche il razionalismo architettonico ostenta un atteggiamento
nettamente antitradizionalistico: nel senso che nella forma geometrica cerca un
valore assoluto, al di sopra della storia. Ma per arrivare alla realtà
essenziale bisogna passare attraverso la scomposizione del dato dell'esperienza,
ridurre la natura dal coacervo confuso delle apparenze alle sue leggi
proporzionali e matematiche. Dunque non si vuole eliminare il naturalistico
delle apparenze, ma riformarlo secondo le regole fondamentali della ragione; non
confutare una concezione del mondo, ma correggerne gli errori; non riproporre da
capo il problema della coscienza e della vita ma rettificarne le storture. La
stessa confutazione della storia è quanto mai discutibile, perché in ogni grande
artista del passato si finisce prima o poi per scoprire un razionalista o un
cubista.
E' chiaro
infatti che una revisione o una rettifica dell'esperienza non può aver luogo se
non sia data e accettata l'esperienza. Tanto Le Corbusier che, e sia pure
con maggiore tormento interiore, Gropius accettano, per esempio, il dato che la
civiltà moderna sia una civiltà meccanica; e si limitano a vedere in essa la
reazione all'intimismo romantico, al sensibilissimo impressionista. Quando
Le Corbusier pone la razionalità della sua forma nella perfetta aderenza a una
necessità pratica non fa dell'empirismo perché questa praticità si sistematizza
nella forma, ma ipostatizza il dato dell'esperienza, assume come base una
condizione presente della società e l'ultimo orizzonte delle sue aspirazioni
riformistiche è di trasformare quel transeunte momento della storia in un
sistema di validità universale ed eterna. Cercherà di eliminare
sistematicamente tutte le interne contraddizioni di quello stato di fatto, senza
chiedersi se esse non abbiano una profonda giustificazione, non esprimano un
disagio, uno stato di insoddisfazione che si tradurrà necessariamente, perché la
storia non è altro che questo divenire, in uno sforzo progressivo, di
superamento.
Anche il
pensiero urbanistico di Le Corbusier è chiuso in questo limite; non è il
pensiero di una società che si sviluppa, ma di una società che si normalizza;
non il pensiero di un'etica, ma di una igiene sociale. Perciò Le Corbusier
è l'esponente tipico di una borghesia che avverte il pericolo imminente e butta
fuori bordo tutto il suo carico di privilegi pur di salvare, con se stessa, i
"supremi valori" della civiltà; e piace immaginarlo, anche per il suo rigorismo
normativo e per lo zelo e l'indiscutibile abilità tattica della sua polemica,
l'Ignazio di Loyola della controriforma borghese europea.
Possiamo
dunque considerare il cosiddetto "razionalismo" architettonico come una serrata
analisi o critica della tradizione, diretta a rintracciarne i fondamenti più
autentici e originali, a restaurarne i valori essenziali: perciò si riconduce,
sia pure contro il classicismo accademico, a un classicismo ideale e contro un
naturalismo consuetudinario al fondamento stesso dell'idea di natura.
Quando la
cultura europea vuole oltrepassare il limite razionalistico del Cubismo
scientifico e dell'architettura che gli è connessa non ha più che una strada:
capovolgere il problema, opporre al valore della coscienza il valore
dell'inconscio. E' la strada chiusa del Surrealismo.
Wright
non conosce abbastanza la storia dell'arte per poter dare un preciso obiettivo
storico alla sua irritata avversione per l'arte classica e in genere per la
grande tradizione figurativa occidentale; ma è abbastanza acuto per individuare
la causa dell'avversione nel principio d'autorità, sul quale quella
tradizione si fonda. Ma di fronte all'argomento-base della polemica
antitradizionalistica europea rimane dubbioso: anche la civiltà meccanica ha i
suoi miti e il suo principio d'autorità. Del principio d'autorità della
civiltà classica e cattolica Wright vede il simbolo nella Cupola di San Pietro;
nel grattacielo vede il simbolo della civiltà meccanica. Wright non
condanna recisamente il carattere meccanico della civiltà moderna, ma vuole che
sia la macchina a servire l'uomo nel suo lavoro e non l'inverso. Alla base
del pensiero di Wright è dunque il valore morale della personalità umana.
L'origine
di questo pensiero si riporta alla polemica di Ruskin e di Morris. Wright
deve la sua formazione artistica, quasi in ugual misura, a Richardson e a
Sullivan. Richardson era un entusiasta delle idee di Ruskin e cercava di
tradurre in atto il suo insegnamento in una architettura ingenuamente
neo-romanica. Ma questo suo romanticismo è un romanticismo a fondo
perduto, sciolto dalla relazione polemica a un opposto classicismo. Perciò
la ripetizione di motivi decorativi medioevali quasi non arriva a turbare il
gioco libero delle sue masse nella luce e la violenza coloristica delle
superfici rustiche della sua architettura.
Sullivan
è uno spirito assai più sottile: ha una esperienza più profonda delle cose
europee, un intenso interesse per le scienze e l'ingegneria, una acuta
sensibilità per i problemi sociali. Anch'egli deduce da Ruskin e da Morris
una concezione profondamente religiosa della vita, e proprio da quel suo
naturalismo misticizzante Wright trae lo spunto per la sua costruzione
ideologica: il concetto di una "vita organica" che è della natura come
dell'uomo, essere perfettamente dotato per ricevere e trasmettere gli impulsi
vitali emanati dalla natura; di un Dio, o piuttosto di un Infinito Spirito
Creativo riconoscibile e attivo in tutte le forme della realtà; di una creazione
tutt'altro che conclusa nell'atto autoritario di un Dio personale, ma in
continuo processo; di un'arte, come processo creativo suscitato dall'esperienza
o come prolungamento nell'uomo di quell'azione creativa, e perciò opposta
all'intellettualismo della composizione e della rappresentazione e
pensata invece come crescita e organizzazione di forme vitali; di una umana
spiritualità che si realizza appunto in quel porsi, con la pratica e dunque col
lavoro, come prolungamento della creazione; di una società, infine,
perfettamente (s'intenda: lincolianamente) democratica, intesa come fraternità e
cooperazione di individui ugualmente investiti di un diritto naturale.
Ho detto
che Sullivan aveva una larga esperienza dell'arte europea: il linearismo gotico
è argomento di una acuta ricerca di linee-forza nel Rotschild Store, nel Ryerson
Building e in genere nelle sue costruzioni tra il 1880 e l'84; poi, forse per il
contatto con Richardson, si orienta verso lo studio di un'articolazione
costruttiva di masse, con una momentanea attrazione verso i temi
dell'architettura toscana del Quattrocento. E' appunto partendo da queste
premesse e da queste ricerche funzionali che Sullivan arriva a ideare (e Wright
ne stende, nella sua acuta biografia, l'atto di nascita) il primo grattacielo,
nel quale la dimensione non risulta dalla ripetizione all'infinito di
proporzioni o di ordini, ma si pone come la condizione determinante di un nuovo
valore formale. E' possibile che l'avversione di wright per il grattacielo
dipenda dall'averne inteso, almeno come fatto sociale, la remota, celata origine
europea; la sua giustificazione, infine, in rapporto a quello spazio urbano e a
quel modo di vita "meccanica" che egli considera al polo opposto della sua
ruskiniana, whitmaniana natura.
Forse
perciò, se la formazione ideologica di Wright muove da Sullivan, la sua
formazione figurativa muove piuttosto da Richardson: e dal suo giuoco aperto di
piante e superfici, che del resto aveva già i suoi precedenti nelle forme più
modeste dell'architettura domestica americana, nelle case-fattorie, nella
cosiddetta architettura della prateria.
infatti
quando Wright, fin dalle sue prime opere, si propone di eliminare la funzione
isolante dei muri e di tracciare planimetrie snodate ed aperte, ubbidisce
piuttosto ad una esigenza liberamente pittorica che a quell'esigenza che,
nell'architettura europea, si chiamerà funzionale. Tant'è vero che le sue
strutture sono già pensate come forma artistica, e non come un semplice
scheletro o schema portante sul quale debba poi modellarsi e svilupparsi la
forma. Poiché non v'è spazio dato a priori, è chiaro che il valore di
forza dei singoli elementi non potrà più dipendere dalla loro distribuzione
razionale nello spazio, secondo intervalli proporzionali, ma soltanto dalla
materia e dalla forma degli elementi. Scrive Wright nella sua
Autobiografia: "Cominciai a studiare la natura dei materiali imparando a vedere
il mattone come mattone, il legno come legno, il cemento, il vetro, il metallo,
ciascuno per se stesso e tutti come se stessi. Strano a dire, questo esigeva una
grande concentrazione dell'immaginazione. Ciascun materiale richiedeva un
trattamento diverso e aveva possibilità d'impiego particolari alla propria
natura. Un disegno adatto per un materiale non lo era per un altro. Non infine
secondo questo ideale di semplicità come plasticità organica". Altrove,
nella stessa Autobiografia, Wright dichiara che il disegno, e s'intende in senso
lato come progetto, è l'astrazione di elementi naturali in termini puramente
geometrici. Qui non si parla di natura come spazio ma di elementi di natura come
materia; e la forma geometrica non è pensata come espressiva di spazio, ma come
pura astrazione mentale; la designazione stessa della coscienza. La forma
geometrica dunque non sarà una rappresentazione della natura, e neppure il
simbolo di quell'elemento isolato; ma sarà come uno stadio successivo e più
alto, un ulteriore momento della sua vita, un trasporto ad un grado più alto di
organicità, una fase, dunque, della creazione in atto. Questo stadio o
fase può essere raggiunto soltanto attraverso il lavoro costruttivo dell'uomo
che, dicemmo, è per Wright l'essere più dotato per ricevere e trasmettere il
messaggio della realtà: essendo implicito in questo ricevere e trasmettere un
prolungamento della creazione, di cui l'uomo diventa perciò inevitabile agente.
Il
superamento della razionalità o del costruttivismo non avviene, dunque, secondo
le regole dell'automatismo surrealista, specie di suprema passività e ultimo
grado di un'umana disperazione di conoscenza, ma attraverso una continua,
inesausta attività costruttiva. Questo è il primo contributo morale di
Wright alla coscienza artistica contemporanea: quello che giustifica
l'estensione del suo insegnamento oltre i limiti dell'architettura, come
indicammo per Moore.
E' ancora
in questo pensiero di una creatività umana ma non trascendente, non autoritaria,
bensì tutta interna alla realtà di cui l'uomo stesso è una forma, che convergono
e si compongono in unità due diverse posizioni di cultura.
L'una è
l'idea di Ruskin e Morris del lavoro umano come intima famigliarità o
partecipazione con le cose create, l'idea dell'ars mechanica medioevale,
dell'opera collettiva o corale delle comunità artigiane, espressione di un
ethos religioso.
L'altra è
la teoria tedesca della Einfhulung , come rivelazione delle leggi eterne,
strutturali della natura nelle forme dell'architettura. A questa teoria è
probabilmente da ricondursi la semplificazione della struttura architettonica e
la sua riduzione a un sistema di coordinate: verticali e orizzontali, piani
paralleli e piani ortogonali, ma sempre pensati come illimitatamente estesi,
appunto perché aprioristicamente riferiti a tutto ciò che, nella realtà, si
riduce alla terra e sorge dalla terra.
Evidentemente questa simbologia non ci interessa come tale; ma è tuttavia
importante notare come lo spazio di Wright si riduca alle sue generatrici; e si
ponga così, non in termini geometrici, ma in termini immediatamente plastici.
Pensata la forma come qualcosa che cresce e crescendo si costruisce, lo spazio è
semplicemente la sua zona vitale, il suo costituirsi in una dimensione. Di
due piani che si secano e sfuggono all'infinito noi non conosciamo che la linea
d'intersezione, la generatrice comune: dunque lo spazio non è più qualcosa che
converge e termina in un punto d'orizzonte, ma qualcosa che da un punto o da una
linea s'irradia all'infinito.
Non a
caso Wright ricorre volentieri al paragone dell'albero: che spinge i suoi rami
fuor del folto in cerca di sole e dirama le sue radici nella terra in cerca di
alimento.
Già nelle
prime opere questo tema spaziale si manifesta, e sia pure con la mediazione dei
tipi architettonici giapponesi, nell'accentuazione e nell'iterazione dei tetti:
il tetto, da orizzonte o termine di spazio che era, diventa un'attiva struttura
spaziale. Così l'edificio non è più una massa nello spazio ma una
realizzazione plastica dello spazio: il punto di vista e l'orizzonte sono ormai
indistinguibili.
Se
l'edificio non è più un volume compatto e finito in uno spazio determinato, ma è
nello stesso tempo principio e fine dello spazio, l'architettura non sarà più
qualcosa che si guarda dal di fuori ma qualcosa che si vive dal di dentro.
Si dirà
che, per scoprire che una casa è fatta per essere abitata piuttosto che per
essere guardata dal di fuori, non era necessario aver del genio, ma soltanto un
po' di buon senso; benché, in verità, un tal buon senso sia anche oggi
estremamente impopolare in Europa. Ma se pensiamo alla serie di case che
Wright è venuto costruendo per sé a Taliesin, quasi per vivere dentro le sue
strutture come un ragno nella sua tela o, forse, per quello stesso bisogno
d'interiorità che spinge i pittori più meditativi - Rembrandt, per esempio, o
Cézanne - a ripetere spesso il proprio ritratto dovremo convenire che quelle
successive costruzioni hanno una giustificazione quasi autobiografica, o
piuttosto sperimentale: un modo di porre la propria coscienza dentro una
struttura, quasi per verificare se essa abbia effettivamente quella
"funzionalità" che non è più la funzionalità astratta di una forma in rapporto a
una necessità statica o pratica, ma è la funzionalità stessa della coscienza
dentro la realtà.
Questo
spiega perché Wright, che pure disprezza ogni monumentalità e ha preferito
educarsi sulle modeste abitazioni americane (e forse c'entrava la propaganda
ruskiniana del cottage), arrivi poi, quasi senza volerlo e come spinto
dall'impulso istintivo del costruire, a espressioni di greve, composita,
apparentemente barocca monumentalità: a quei colossali esempi del cattivo gusto,
sul quale forse gli architetti europei dal gusto ineccepibile avrebbero fatto
bene a meditare. Nell'architettura domestica americana Wright cercava il
documento di un'intima partecipazione, di una libera attività dell'uomo nella
realtà; e la prima fase di un progredire dell'organicità naturale
nell'organicità sociale; nella monumentalità cerca di sovrastare con la realtà
della forma illusoria delle apparenze, di isolare l'architettura dalla natura o
di escludere ogni aspetto di natura che non sia implicito e risolto nella forma
architettonica.
Lo sforzo
di Wright non è mai inteso ad armonizzare l'edificio con la natura, ma a
risolvere tutta la natura nell'edificio, a trasformarla, a sublimarla, ad
astrarla nell'edificio. Le superfici fitte di ornamenti, spesso trite,
talvolta perfino urtanti per un eccesso apparente di ricami e di ritagli, non
hanno altro scopo che di riflettere, rifrangere, assorbire la luce, impegnarla
in un disegno, legarla intimamente, quasi combinarla alla materia; e nello
stesso tempo di sottrarre i piani a una loro normale situazione prospettica, di
indicarne l'illimitata estensione. Non si può separare questo apparente
decorativismo dal geometrismo astratto che trova, nel 1914, il suo punto
d'arrivo e il suo limite in Midway Garden: il tentativo dal quale muoverà,
tuttavia, quel neo-plasticismo che attraverso Mondrian giungerà a suggerire
all'olandese Oud una nuova idea distributiva dello spazio urbanistico. E
non si può separare da quel geometrismo astratto il tentativo di arrivare, nelle
costruzione compiute in California, tra il 1916 e il 17, a una definizione
costruttiva, organica della più immateriale e più liberamente cosmica delle
materie, la luce. E si ricordi anche, il progetto per la costruzione nel
cuore del deserto dell'Arizona: un'aggregazione compatta di prismi incastrati
l'uno nell'altro, emergenti soltanto con gli spigoli sfuggenti, come per attuare
una continua rifrazione di raggi luminosi. E si pensi infine alla famosa
casa sulla cascata, con quella corsa di candidi volumi sfuggenti in direzione
opposta alla cascata che sovrastano e con quella rude parete verticale, a
coltello, che coordina i due ritmi opposti.
Allora
s'intende come la morfologia dell'architettura di Wright non sia più di
un'occasione, una contingenza d'attualità, alla continuità dello sforzo
costruttivo: gli aspetti temporali dell'eterna organicità costruttiva.
Ponendo
l'umanità come il momento creatore più attuale o il più alto agente
dell'organicità del reale, Wright è necessariamente indotto a prescindere dal
valore della storia. Il suo stesso ideale democratico si trasporta nel
mito, assume aspetti piuttosto religiosi che sociali o politici. Il suo
entusiasmo per l'arte orientale, se può avere avuto un pretesto nella
rivalutazione dell'arte cinese e giapponese che era seguita alla polemica degli
Impressionisti francesi, è soprattutto determinato dalla volontà di uscire dagli
schemi consueti dello storicismo europeo.
Quando
perciò generalizza la sua esperienza costruttiva in un programma urbanistico, il
suo dato non è una situazione storica di fatto, ma una funzione fondamentale
dell'uomo, la funzione, appunto, d'inserirsi nel processo organico o
autocreativo della realtà, come agente di quell'autocreazione. La
cellula-base della concezione urbanistica di Wright è infatti la fattoria, che
riunisce in una unica struttura articolata e funzionale tutti i suoi annessi, ed
è come un'immensa macchina agricola ancorata in mezzo alla prateria, un centro
di civiltà e di lavoro, di democrazia creativa, nel cuore stesso della
sconfinata natura.
Così
l'idea iniziale della costruzione come l'atto nel quale si prende coscienza
della realtà e si inserisce la propria vita particolare nella vita universale si
dilata in un concetto assai più vasto di civiltà, come somma di umano lavoro.
Al di fuori di questo contatto continuo e impegnato con la realtà, non può
esservi civiltà: ecco perché Wright protesta contro quella che poi Munford
chiamerà Megalopolis, cioè contro i grandi centri del capitalismo, dove lo
sfruttamento del lavoro umano soffoca in un'attività febbrile e malata ogni
fondamento etico dell'attività umana. Una civiltà che si stacchi dalla
matrice rigenerante della realtà, e che voglia creare nella città la condizione
o l'ambiente di questa sua vita artificiosa, è destinata a morire con essa;
forse, aggiunge Wright, a causa di essa.
Se
l'interesse degli architetti europei, a cominciare da Gropius, per il maestro
americano è sempre stato acuto, dopo la guerra si è sentito che l'architettura
di Wright rispondeva a una nuova istanza interiore della coscienza europea.
Nell'astrattismo realistico di Wright si è avvertita una spinta ideologica,
religiosa, la coscienza di un nuovo valore della realtà: quello appunto che
mancava allo sforzo razionalistico europeo.
Perciò
l'opera dell'artista che ancora dieci anni fa si considerava un grande
romantico, il sopravvissuto di una generazione generosa e inattuale, l'ultimo
dei pionieri risulta oggi estremamente attuale : proprio perché oggi il problema
non è più di rettificare una situazione di disordine o di rendere funzionale e
dialettico il rapporto di forza tra le classi sociali, ma una totale revisione,
una nuova definizione dei valori della realtà e della coscienza.
FONTE : dalla rivista Metron , N°18 , Ed. Sandron, Roma, 1947 .
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