L’ORNAMENTO IN ARCHITETTURA
di Louis Henry Sullivan
Mi pare evidente che un edificio, anche se privo di ornamenti, possa trasmettere un sentimento nobile e degno in virtù della sua massa e proporzione. Non trovo affatto evidente, invece, che l’ornamento riesca di per sé ad accrescere queste qualità elementari. Perché, allora, dovremmo usare l’ornamento? Non basta una dignità nobile e semplice? Perché dovremmo pretendere di più?
Francamente, credo che avremmo un grande vantaggio estetico se ci astenessimo del tutto dall’usare l’ornamento per qualche anno, per concentrarci al meglio sulla produzione di edifici ben fatti e piacevoli nella loro nudità. In tal modo saremmo tenuti a evitare molte cose sgradevoli, rendendoci conto, in compenso, di quanto sia utile pensare in modo naturale, vigoroso e sano. Ciò fatto, potremmo tranquillamente indagare in che misura l’applicazione decorativa dell’ornamento accresca la bellezza delle nostre costruzioni, e quale nuovo fascino dia loro.
Prese come base di partenza le forme pure e semplici, la visione che ne avremo sarà completamente diversa; istintivamente ci asterremo dal vandalismo; eviteremo di fare qualunque cosa possa rendere queste forme meno pure, meno nobili. Del resto, avremo imparato che l’ornamento è un lusso mentale, non una necessità, dopo aver compreso sia i limiti sia il grande valore delle masse disadorne. In noi c’è il romanticismo, e aneliamo ad esprimerlo. Intuiamo che le nostre forme forti, atletiche e semplici vestiranno con naturale scioltezza gli abiti che sogniamo, e che i nostri edifici, così drappeggiati di immaginazione poetica, così rivestititi di prodotti scelti del telaio e della miniera, raddoppieranno la loro forza di attrazione, come una melodia sonora rivestita di voci armoniose.
Penso che un vero artista ragionerà sostanzialmente in questo modo, e che, al culmine delle sue possibilità, riuscirà a realizzare questo ideale. Credo che l’ornamento architettonico prodotto in questo spirito sia desiderabile perché bello e illuminante e che, invece, l’ornamento prodotto con altro spirito manchi alle sue potenzialità più alte.
In altre parole, un edificio che è una vera opera d’arte (qui non ne considero altri) è, per sua natura, essenza e costituzione fisica, un’espressione emotiva. Se è così, e sento profondamente che è così, allora deve, quasi letteralmente, avere una vita. Deriva da tale principio vitale che una costruzione ornata dovrebbe caratterizzarsi qualitativamente per un unico impulso emotivo, che scorre armoniosamente in tutte le sue diverse forme d’espressione – delle quali la massa-composizione è la più profonda, l’ornamentazione decorativa la più intensa. Ma tutte e due devono scaturire dalla stessa fonte emotiva.
So benissimo che un edificio decorato, progettato secondo questo principio, esigerà dal suo creatore un’alta e prolungata tensione emotiva, un’unità organica di idea e scopo mantenuta fino alla fine. Il lavoro ultimato ne sarà l’espressione; e se sarà stato progettato con sufficiente profondità di sentimento e semplicità di intenti, quanto più intenso sarà il fervore con cui fu concepito, tanto più nobile e sereno esso resterà per sempre, monumento all’eloquenza dell’uomo. E’ questa la qualità che caratterizza i grandi monumenti del passato. Ed è certamente la stessa che apre una prospettiva per il futuro.
A mio modo di vedere, tuttavia, la massa-composizione e il sistema decorativo di una costruzione, così come ne ho accennato, si dovrebbero poter separare l’una dall’altro solo in teoria e ai fini di uno studio analitico. Credo, come ho già detto, che si possa progettare un edificio bello ed eccellente senza il minimo ornamento; ma sono anche convinto che una costruzione decorata, concepita armoniosamente, ben ponderata, non possa essere spogliata del suo sistema d’ornamento senza distruggerne l’individualità.
Finora è andato di moda parlare di ornamento, forse in modo fin troppo superficiale, come una cosa da aggiungere o togliere a seconda dei casi. Io sono di avviso opposto – la presenza o l’assenza dell’ornamento dovrebbero essere stabilite, in un lavoro serio, fin dall’inizio del progetto. La mia insistenza potrebbe sembrare esagerata, ma la giustifico e la rimarco col fatto che l’architettura creativa è un’arte così raffinata che il suo potere si manifesta in ritmi di straordinaria sottigliezza, proprio come quelli dell’arte musicale, sua parente più prossima.
Se, dunque, i nostri ritmi artistici – un effetto – devono essere significativi, anche le riflessioni che li precedono – la causa – devono esserlo. E’ allora estremamente importante stabilire quale sia l’inclinazione originaria della mente, proprio come è importante l’inclinazione di un cannone quando viene esploso il colpo.
Se partiamo dall’idea che l’edificio a cui pensiamo non debba essere opera di un’arte vivente, o quantomeno sforzarsi di esserlo, e che la nostra civiltà non esiga niente del genere, la mia pretesa non ha senso. Posso procedere solo supponendo che la nostra cultura sia progredita fino allo stadio in cui un’arte imitativa o evocativa non soddisfi del tutto, e che ci sia un effettivo desiderio di espressione spontanea. Penso anche che dobbiamo cominciare non chiudendo occhi ed orecchie a un passato ineffabile ma, invece, aprendo i cuori, con partecipazione illuminata e rispetto filiale, alla voce dei nostri tempi.
Non è questo né il luogo né il tempo per chiedersi se, dopo tutto, esista realmente qualcosa di simile all’arte creativa – se un’analisi finale non riveli il grande artista, non come creatore ma piuttosto come interprete e profeta. Quando verrà il momento in cui una simile indagine sarà non più un lusso ma una seria necessità, la nostra architettura si sarà avvicinata allo stadio finale di sviluppo. Mi limiterò quindi a dire che, a mio avviso, un’opera d’arte deve essere appunto questo: un manufatto di un certo interesse, che l’osservatore casuale può vedere in parte, ma nessun osservatore completamente, nella sua interezza.
Sia chiaro che un motivo ornamentale sarà più bello se sembrerà far parte della superficie o della materia che lo accoglie anziché sembrare, per così dire, “appiccicato”. Si capirà a prima vista che nel primo caso c’è una particolare sintonia tra l’ornamento e la costruzione che è assente nel secondo. Sia la costruzione sia l’ornamento ovviamente beneficiano di questa sintonia; ciascuno accresce il valore dell’altro. E questa, penso, è la base preparatoria di ciò che si può definire un sistema organico di ornamentazione.
L’ornamento, in realtà, viene applicato nel senso di essere inciso o intagliato, o realizzato in qualche altro modo: dovrebbe però apparire, una volta completato, come se fosse promanato dalla sostanza stessa del materiale, grazie all’intervento esterno di un qualche fattore favorevole, e esistesse con lo stesso diritto di un fiore che appare tra le foglie di una pianta che l’ha generato.
Ora, con questo metodo stabiliamo una sorta di contatto, e lo spirito che anima la massa è libero di fluire all’interno dell’ornamento – non sono più due cose ma una sola.
Ad osservare le cose in modo profondo ed attento, è evidente che se desideriamo garantire una reale, poetica unità, l’ornamento dovrebbe apparire non come qualcosa che accoglie lo spirito della costruzione, ma come una cosa che esprime quello spirito in virtù di una crescita differenziale.
Ne consegue allora, per la logica della crescita, che un certo tipo di ornamento dovrebbe apparire su un certo tipo di costruzione, esattamente come un certo tipo di foglia apparire su un certo tipo di albero. Una foglia di olmo non “starebbe bene” su un albero di pino – un ago di pino apparirebbe più “in accordo”. Così, un ornamento o uno schema di decorazione organica adeguato a una costruzione creata basandosi su linee spesse e massicce non sarebbe in sintonia con una costruzione delicata e raffinata. Né i sistemi ornamentali di edifici di generi in qualche modo differenti dovrebbero essere intercambiabili tra loro. Gli edifici dovrebbero possedere un’individualità tanto marcata quanto quella che esiste tra gli uomini, e che li rende distintamente separabili l’uno dall’altro, per quanto forte possa essere la somiglianza razziale o familiare.
Ognuno sa e sente quanto fortemente individuale sia la voce di ciascun uomo, ma pochi si fermano a considerare che una voce, anche se di altro tipo, parla da ogni edificio esistente. Qual è il carattere di queste voci? Sono stridule o gradevoli, nobili o umili? Il discorso che pronunciano è prosa o poesia?
Una mera differenza nella forma esteriore non costituisce individualità. Per questo è necessario un armonioso carattere interiore; e come parliamo di natura umana, per analogia possiamo applicare un’espressione simile agli edifici.
Una rapida indagine consentirà immediatamente di discernere e apprezzare le più manifeste individualità degli edifici; un’ulteriore indagine, e un raffronto delle impressioni, porterà a vedere forme e qualità in un primo momento nascoste; un’analisi ancora più profonda fornirà una miriade di nuove sensazioni, suscitate dalla scoperta di qualità sinora insospettate – abbiamo trovato prove del dono dell’espressione e ne abbiamo avvertito l’importanza; la gratificazione mentale ed emotiva causata da queste scoperte porta a indagare sempre più in profondità, finché non ci rendiamo conto che, nelle grandi opere, ciò che era evidente era il meno e ciò che era nascosto era quasi tutto.
Pochi lavori possono reggere la prova di una rigorosa, sistematica analisi – e si esauriscono in fretta. Ma nessuna analisi, per quanto simpatetica, insistita o profonda, può esaurire un’opera d’arte veramente grande. Infatti le qualità che la rendono grande non sono solo mentali, ma psichiche, e denotano pertanto la più alta espressione e incarnazione dell’individualità.
Ora, se questa qualità spirituale ed emotiva è un attributo nobile quando risiede nella massa di un edificio, non appena la si applica ad un virile e sintetico schema di ornamentazione, essa deve innalzarlo dal livello della trivialità alle altezze dell’espressione drammatica.
Le possibilità dell’ornamentazione, così considerate, sono meravigliose; aprono davanti ai nostri occhi, come un panorama, concezioni così ricche, così varie, così poetiche, così inesauribili che la mente indugia nel suo volo e la vita non è che un breve intermezzo.
Risplenda ora la luce di questa concezione, piena e libera, sulle considerazioni congiunte di massa e composizione, e quanto seria, eloquente, ispiratrice è l’immaginazione, tanto è nobile la drammatica forza che renderà sublime la nostra architettura futura.
L’America è il solo paese in tutta la terra dove un sogno come questo può essere realizzato; infatti solo qui la tradizione è senza catene e l’anima dell’uomo è libera di crescere, di maturare, di cercare ciò che le è proprio.
Ma per questo dobbiamo rivolgerci di nuovo alla Natura e, ascoltando la sua voce melodiosa, imparare, come fanno i bambini, l’accento delle sue ritmiche cadenze. Dobbiamo guardare il sorgere del sole ambiziosamente, il crepuscolo malinconicamente; poi, quando i nostri occhi avranno imparato a vedere, capiremo quanto è grande la semplicità della natura, che serenamente produce questa infinita variazione. Da ciò impareremo a considerare l’uomo e i suoi modi, fino a contemplare il dispiegarsi dell’anima in tutta la sua bellezza, consapevoli che la fragranza di un’arte viva si spande nuovamente nel giardino del nostro mondo.
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Sullivan pubblicò L'ornamento in architettura [Ornament in Architecture] sulla rivista Enginering Magazine nel 1892, cioè nel quarto centenario della scoperta dell'America, mentre fervevano i preparativi per la World's Columbian Exposition, l'esposizione internazionale prevista per l'anno successivo a Chicago. L'articolo figura nella raccolta completa degli scritti teorici editi in vita dall'architetto: L. Sullivan, The Public Papers, Chicago, Chicago University Press, 1988.
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