ARCHITETTURA : 25 Lezioni
di Sandro Lazier
La chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori di Francesco Borromini, iniziata nel 1642, mai finita per mancanza di fondi, aperta al pubblico nel 1655, rappresenta, secondo il mio parere, un concreto antenato della modernità nei suoi aspetti più attuali e sofisticati. Un esempio di architettura capace di contestare la più alta forma di suggestione architettonica fin dai tempi antichi: la simmetria. Questo edificio, nella sua parte pubblica esposta, con lo svuotamento della partitura centrale riesce a demolire completamente il senso della simmetria, che pretenderebbe invece un crescendo, sia fisico che formale, che dai lati dovrebbe procedere verso un centro enfatico, in questo modo celebrando l’unità dell’edificio e la sua conseguente potenza comunicativa. Invece l’edificio, che risulta spezzato e raddoppiato, pretende una lettura in movimento e continuamente attratta dal rimando al lato fratello che, in questo modo e grazie alle differenze delle aperture e dei riferimenti, perde ogni forma di gemellanza richiesta dalla rigida visione simmetrica qui sfacciatamente negata. Il portale d’ingresso è la vittima sacrificale di una centralità ridotta a comparsa.
Essere architetti, ed in particolare grandi architetti, vuol dire saper tradire l’architettura, che è la cosa che più si ama, per poterla amare.
Le lezioni che voglio proporre, brevi e sintetiche così come proposte per la scrittura sulle pagine social, non hanno la pretesa di insegnare nulla, ma solo quella di far conoscere l’architettura anche a chi la considera solo un lavoro come un altro.
Lezione numero 1
La diversità educa alla convivenza e alla fratellanza tra le persone, indipendentemente da etnie, religioni e classi sociali.
L'omologazione stilistica, l'identità e lo storicismo accademico educano al razzismo, al fascismo e alla discriminazione in genere, poiché tendono a disprezzare chi e cosa non appartiene al gruppo dominante.
Aver legittimato culturalmente questo secondo aspetto ha aperto le porte del confronto politico agli istinti più bassi e più deboli che covano in ogni popolazione.
C'è tutta una classe intellettuale che dovrebbe chiedere scusa per questa deriva sociale e politica che il vezzo nostalgico ha saputo metter in moto.
Lezione numero 2
L’architettura, e l’arte in genere, non devono avere valore per sé, ma devono essere degne della nostra considerazione. Il valore dell’arte, infatti, nel modo in cui generalmente lo consideriamo, non serve all’arte ma solo a chi la possiede materialmente. Il nostro giudizio è sempre molto influenzato da tale condizione materiale la quale, spesso, ricorre ad artifici retorici per giustificare la dote mercantile. Anche il concetto di bellezza ricade in questa considerazione, acquisendo pertanto in tale contesto anche un valore morale, anch’esso inutile per l’arte ma utile per il riscatto etico di chi la possiede.
Per questa ragione, giudicare l’arte con il criterio della bellezza è fuorviante e ingenuo. L’arte, e l’architettura che ne è parte, valgono per la loro capacità di produrre “considerazione” e non per quella d’inseguire o rappresentare solo la bellezza.
Lezione numero 3
L’architettura è ritenuta socialmente un’attività pericolosa.
Se no, non si capirebbe perché le scuole, che hanno la presunzione d’insegnarla e darne titolo, tendano a mortificare ogni gesto progettuale che non sia governato dalla sottomissione a regole e pregiudizi accademici. Non si capirebbe nemmeno perché la legislazione che regola il mondo delle costruzioni sia una selva normativa ormai indecifrabile, contraddittoria e reazionaria, nella quale anche solo la sbagliata indicazione in casa di dove si volesse urinare potrebbe costituire un reato penale. E questo soggiogamento a regole e teorie, che diventa titolo di vanto per gli incapaci che solo di queste si nutrono, non si ferma neppure davanti ai pochi dotati che la scuola e la vita riescono fortuitamente ad incontrare e che, ancor più fortunatamente, di queste se ne fottono. E tutto questo avviene perché si ha idea che non si possa turbare più di tanto il buoncostume dei sentimenti comuni, impedendo di mostrare al mondo la libertà dell’unica arte che non si può fare a meno di vedere perché realmente pubblica.
Un concetto, quest’ultimo, che non ha una bandiera politica ma che piace molto a chi ha una visione prudente e disciplinata, se non reazionaria, della società. Un concetto che piace molto ai governanti che tengono più al al consenso verso la propria ambizione che alla crescita culturale dei loro elettori.
Ma noi confidiamo sempre nelle eccezioni.
Lezione numero 4
Se l’architettura è considerata un’attività pericolosa, gli architetti, la cui pericolosità paradossalmente è del tutto sottovalutata, contribuiscono in larga scala a legittimare questo pregiudizio. Tra questi, i peggiori sono gli urbanisti i quali, sentendosi padroni dei destini umani, come la scienza, trattano l’umanità e le sue questioni col cinismo che viene legittimamente concesso alle teorie astratte, ma che non dovrebbero mai essere calate pedissequamente nella realtà della vita sociale, la cui complessità non è più gestibile con la programmazione pluriennale (l’urbanistica) ma va governata con scelte strategiche aperte (l’architettura).
L’urbanistica, pretestuosamente divenuta scienza per potersi porre sopra l’architettura, considera quest’ultima come il catalogo IKEA per arredare le sue teorie. Questa prevaricazione ormai s’è spinta fino ad invadere il dominio privato ed intimo della progettazione, imponendo stili di vita e di espressione senza nessun dialogo e nessun rapporto con i desideri e le aspirazioni dell’utente finale, al quale è negata ogni istanza personale. S’è spinta ad un punto tale di omologazione da rendere indistinguibili il piano per un nuovo quartiere periferico da quello di un campo di concentramento nazista.
L’organizzazione dello spazio pubblico e di quello privato, già vittima di un concetto di ripartizione a fette del territorio, che condiziona la vita di intere parti di città alla loro funzionalità cronologica, negli anni ha estromesso l’architettura (che è sempre sintesi di necessità pubblica, di domanda privata e personale e di capacità professionale) dalla sua collocazione centrale nel mondo delle costruzioni, privilegiando grandi piani omogenei ed astratti privi di qualsiasi dote umanistica.
I disastri provocati dall’adozione rigorosa di certi programmi urbanistici li conosciamo, così come conosciamo l’accanimento legislativo con cui questi programmi vorrebbero trovare attuazione, riducendo ormai tutta la materia ad una questione di legalità amministrativa. Di architettura, negli uffici comunali, non se ne parla proprio da un pezzo.
Lezione numero 5
Con una battuta si potrebbe dire che il vero pericolo per la nostra civiltà non sono i migranti ma gli urbanisti.
Gli urbanisti sono quegli architetti che, in virtù delle loro teorie, dicono agli altri come e dove devono abitare, magari intruppandoli in quartieri ideati col concetto e l’aspetto della caserma, costringendoli in vere galere esistenziali, senza nemmeno rendersi conto delle libertà e dei principi a lei legati che una tale condizione sta violando, rubando all'architettura il suo ruolo principale di libertà ideativa, insieme allo spazio d’incertezza e casualità che le è proprio. L'idea di regola, di contesto e di tipologia, a cui tutto deve mortalmente e burocraticamente soggiacere, è diventato il limite insuperabile dell'architettura e quindi, di conseguenza, anche dell'urbanistica, perché è l'architettura, non l'urbanistica, a costruire la città. Con le teorie non si costruiscono fisicamente le abitazioni. L'architettura, quella seria e non le parodie postmoderne o storiciste prese a prestito dal passato, crea contesto invece d'usarlo come un alibi per vere e proprie cialtronate architettoniche.
Lezione numero 6
Negli anni ho avuto spesso scontri dialettici con tecnici e funzionari comunali per difendere scelte architettoniche inusuali e, per questo motivo, problematiche. Complice la scarsa competenza architettonica delle commissioni edilizie, alcuni progetti sono stati l’esito di battaglie pressoché eroiche. Oggi sono convinto che solo una grande sensibilità verso la materia impedisca agli architetti veri di appiattirsi su schemi e protocolli banali, come d'altronde vorrebbero i piani regolatori. Sono questi piani e i loro strumenti attuativi, infatti, l’origine della scarsa presenza dell’architettura nel costruito. Nella legge urbanistica, per l’appunto, l’architettura non è mai citata. Questa, come tutte le leggi e i regolamenti derivati, non è stata scritta da architetti ma da avvocati ed urbanisti, che considerano l’architettura una sorta di arredo dei loro teoremi.
Questi soggetti, non si occupano di architettura e non la promuovo ma la utilizzano per i loro piani programmatici prediligendo, nei pochi casi in cui si prendono il gusto di prevederla, aspetti retorici e reazionari, quali l’utilizzo di concetti desueti come la tipologia o l’omologazione stilistica. La vera legge sull’architettura, tanto reclamata dagli architetti, in effetti esiste ed è la legge urbanistica, che andrebbe rivista e cambiata in quegli aspetti che limitano e controllano la libertà espressiva dell’architettura contemporanea. Sopprimere commissioni edilizie e paesaggistiche o altre in uso alla politica per governare la libera espressione dovrebbe essere il primo passo verso tale liberazione, invitando gli ordini professionali, finché ancora esistono, a sanzionare gli iscritti che ne fanno parte per evidente concorrenza sleale ipocritamente celata dietro un parere collettivo fasullo.
Lezione numero 7
Anche l’Unione Europea, nella sua presunzione normativa, esprime una direttiva che chiama “DIRETTIVA EUROPEA SULL’ARCHITETTURA E L’AMBIENTE DI VITA”. Si tratta di un testo che, come tutti i testi scritti per la gloria del mondo, è pieno di buone intenzioni ma che poi s’infila nel solito pastiche burocratico del quale, onestamente, non abbiamo sicuramente necessità di aumentare il peso.
Sembra, anche questo, un testo più utile agli architetti, intruppati in vari eserciti e che hanno la primaria preoccupazione di non vedersi scavalcare dall’esterno, che non all’architettura vera e propria, come se la stessa fosse la conseguenza naturale d’essere architetti e non viceversa. A me hanno insegnato che è quello che fai a dirmi chi sei, e non il contrario. Nel testo non ci sono riferimenti a cosa lo stesso intende per architettura, ovvero quale e a quale ideale abitativo deve essere ispirato. L’architettura monumentale, simmetrica e scatolare, per esempio, risponde all’ideale che si intende promuovere? Se lo fosse già non mi apparterrebbe e se invece, proprio per tenere tutti nella stessa barca si pensasse d’inseguire tutte le posizioni ideali, a questo punto mi chiederei a cosa servirebbe una legge. Molto meglio sarebbe se ogni tendenza culturale agisse secondo principi propri, senza aiutini e limiti imposti per legge dalla chiesa centrale.
L’architettura ha da essere libera, soprattutto dalla burocrazia e dagli ordini.
Lezione numero 8
Vale più la tutela del paesaggio o la libertà d’espressione delle persone che lo vivono?
Vale più il paesaggio naturale e storico del passato o quello umano, presente e contingente?
È più importante la serenità contemplativa degli intellettuali da passeggio o la necessità di stare al mondo padroni della propria vita e del proprio destino?
L’arte contemporanea ha risposto alla grande a queste domande e lo ha fatto principalmente in tre modi.
Il primo sbarazzandosi dei concetti di armonia e bellezza, portando sul palcoscenico il “dolore del mondo” e le sue contraddizioni e ingiustizie, creando nuovi paradigmi estetici.
Il secondo riprendendosi il ruolo della libera seduzione, senza regole e protocolli, che non rispetta i contesti sociali e non tollera gerarchie di classe. L’arte, infatti, consente allo stalliere di fare sesso con Lady Chatterley e alle signorine di Avignon di coglionare la bellezza femminile.
Il terzo trasformando le bestemmie in preghiere, le parolacce in poesie, trasformando, come sosteneva Baudrillard “la crisi in valore”.
Le risposte, quindi, diventano semplici.
In architettura non ci può essere paesaggio che non contempli anche le persone nella loro vita e condizione presente, non solo in quella passata.
In architettura il passato è letto con gli occhi dell’adesso e non può essere fine a se stesso, isolato dal contesto presente. Soprattutto non può porre condizioni al divenire.
L’architettura è soprattutto un modo di vivere e di stare al mondo secondo la propria cultura, conoscenza e ambizione.
L’architettura è un’arte pubblica perché si vede anche senza entrare in un museo o leggere un libro. Per questo rappresenta il modo principale nel quale si esprime la libertà di espressione, che è il fondamento di uno stato democratico e liberale, il quale può esistere solo riconoscendo a tutti questo diritto.
In architettura nessuno è titolare del bene comune in forma concreta e nessuno può usare questo argomento per limitare la libertà degli altri.
In architettura la libertà vale più dell’armonia, del contesto e di altre stravaganze retoriche utili solo al controllo delle nostre libertà personali.
Lezione numero 9
Molti detrattori della modernità identificano l’intero movimento moderno con l’international style, ovvero con edifici di forma stereometrica rivestiti con pareti di vetro chiamate curtain wall. In realtà il panorama che ha coinvolto l’architettura durante pressoché tutto il novecento è stato molto più ricco e variegato e basta sfogliare un testo qualsiasi di storia per perdersi in movimenti diversi che hanno indagato ogni possibile forma ed esperienza espressiva riferibile alle costruzioni. Alcuni di questi movimenti hanno trovato maggiore successo e applicazione e, tra questi, in competizione con il movimento organico più vicino ad una visione pragmatica che ideale dell’architettura, lo stile internazionale, relativamente più facile e fondamentalmente classico nella sua impostazione spaziale, che ha avuto una diffusione globale. Questo è il motivo per cui i detrattori di questo stile lo hanno preso a misura di tutta la modernità, condannandolo all’insignificanza.
Questa semplificazione dialettica ha convinto molti, anche competenti, a considerare moderno ciò che si costruisce col vetro e antico o tradizionale ciò che si costruisce coi mattoni. In verità si possono costruire case neoclassiche col vetro e modernissime in mattoni. Non è importante, infatti, il materiale che si usa ma piuttosto il come. Non sono importanti le parole ma le frasi. Nessuna parola è volgare in sé; sono volgari le frasi che anche parole nobili possono esprimere.
In architettura materiali e colori sono importanti ma, da soli, non sono sufficientemente indicativi della qualità di una architettura.
Lezione numero 10
Gli ordini che istituzionalmente governano le professioni intellettuali (per fortuna non tutte) dovrebbero prendere provvedimenti contro il diffuso mercenarismo culturale che vede ingaggiati alcuni propri iscritti per dare giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, azione del tutto condannata dal codice deontologico che considera (ipocritamente) tutti gli iscritti pariteticamente sia per competenza che per valore, proibendo loro addirittura la pubblicità in forma esplicita. L'azione dei commissari, sempre ingaggiati dalla politica che usa queste forme per deresponsabilizzare i suoi rifiuti, dietro alla irresponsabilità collettiva (la responsabilità penale è solo personale) capace di un giudizio estremamente efficace tanto da intervenire nelle scelte fondamentali di progetto, offre lo spazio per azioni di concorrenza sleale di fatto immuni da responsabilità civili e penali.
L'esito del ricorso a questi baracconi burocratici è, oltre una inutile perdita di tempo, il basso livello della qualità architettonica, costretta a tristi mediazioni imposte per riportare il costruito dentro a schemi tipologici e linguistici nei quali mediocrità e pregiudizio diventano argomenti portanti. La maggioranza dei progettisti, conoscendo i limiti e il prezzo culturale da pagare per il successo del proprio lavoro, se non hanno una spiccata personalità tendono a produrre proposte già mortificate sul piano architettonico, capaci per questo di quietare le eventuali invidie e speculazioni concorrenti.
Sarebbe bene pertanto che, chi intende partecipare a commissioni nelle quali sono richiesti giudizi di merito sul lavoro dei colleghi, si autosospenda dall’ordine.
Lezione numero 11
Siamo un paese orgoglioso della propria storia, benché in maggioranza sia storia di poveracci macellati in guerra dalla vanità di principi, re e tiranni. Siamo un paese che ha paura di perdere la propria identità (in maggioranza figli di poveracci macellati da principi, re e tiranni) che, da quando dice d’averla persa, nei popoli che l'hanno persa, non ha meravigliosamente più conosciuto una guerra cruenta.
Il nostro problema, quindi, è quello di cambiare identità, non quello di conservarla, perché la nostra identità è violenta, sporca, infetta, cinica e malata.
Il nostro problema è quello di liberarci della galera della memoria e costruire un uomo nuovo, sano, libero, senza storia, perché ognuno deve essere padrone ed autore del proprio destino, in barba ai pedigrees di tutte le razze e religioni. E questo lo si fa cominciando da dove si abita, sfidando il futuro, inseguendo il presente in tutte le sue possibilità, ripudiando il linguaggio formalizzato della tradizione e di questa accettando solo le sue meravigliose bestemmie.
Lezione numero 12
Da ormai parecchi anni le mie personali ricerche nel campo dell’architettura vertono quasi esclusivamente sugli spazi che questa procura e che costituiscono il vero tema di dialogo con l’interlocutore. Non vertono sulle cose materiali ma sui vuoti che si formano tra le stesse. Questa, secondo me, rimane l’essenza dell'architettura: creare spazi e non solo costruire edifici. Ogni progetto è un continuo rimbalzo di condizioni spaziali interne allo stesso o in relazione con l’esterno, tali che ne modificano il racconto dentro la trama urbana, arricchendolo o completandolo, sempre trasformandolo. Perché così è anche la vita.
Questi vuoti, che si possono chiamare ambiti, vani, fessure, cortili, carruggi, sono diventati per me lo strumento di lettura principale del linguaggio architettonico contemporaneo. Se ci si concentra infatti solo sugli oggetti, gli edifici, il loro stile, i materiali o altre caratteristiche tipiche del design, si perde la dimensione principale dell’esperienza architettonica, quella che si prova entrandoci. Di solito incontriamo degli oggetti, spesso isolati in un tessuto urbanistico rigido ed elementare, i quali, se non hanno al loro interno fessure o trapassi o ambiti tali da ricreare scambio di relazioni spaziali, restano mute frasi isolate anche in presenza di elaborate e fantasiose ricerche plastiche di superficie. Di solito faccio due esempi che sembrano chiari. Forse la più suggestiva piazza del mondo è la Piazza del Campo di Siena (foto in basso).
La sua forma e collocazione all’interno della città procura stupore indipendentemente dagli edifici che la circondano, nessuno dei quali di particolare pregio. La sua forza sta quindi nel suo spazio e non negli oggetti che lo definiscono. Altro esempio sono le città storiche, apprezzate ormai universalmente, che valgono più per la trama che per gli edifici che le compongono. Se gli stessi edifici fossero distribuiti su trame diverse, magari regolari e distanziate, come vuole il decreto legge sulle distanze minime tra pareti finestrate, non credo che riconoscereste la città storica di partenza. Quindi, il vero strumento che determina l’architettura, non sono gli edifici in sé, i materiali o le forme o quel che volete, ma fondamentalmente la loro distanza ed il loro modo di rapportarsi. Tra sé e sé e sé e gli altri. Purtroppo, tutta la normativa che serve a produrre gli edifici nel nostro paese considera la distanza un tema solo giuridico, rinnegando secoli di storia dell'architettura e dell’urbanistica.
Lezione numero 13
Nella lezione precedente ho messo in rilievo il fatto che le architetture valgano più per le loro relazioni spaziali che come oggetti costruiti. Questa apertura, concettualmente assai poco materialistica per i gusti del novecento, potrebbe dare adito a teorie e principi più prossimi ad una visione performativa dell’arte urbana, più vicina ad un’idea di paesaggio pittoresca e contemplativa, tra l’altro in linea con la percezione turistica del nostro paese oggi diventata strumento di nuova economia. Una visione che dovrebbe comprendere una regia urbana che dai materiali alle simbologie, alle tipologie e agli archetipi tenda a conservare coerenza stilistica e morfologica dentro uno schema di continuità, quindi in linea con la tradizione costruttiva. Questa concezione, che nella sua semplicità diventa un potente richiamo normativo facilmente applicabile, ha dato origine all’idea diffusa che ogni nuovo intervento urbano debba essere “ambientato” e reso armonico con il passato o con la natura.
Per sua condizione, essendo questa una idea evidentemente reazionaria, anche se venduta come innovatrice, non può appartenere ad un concetto libero ed evoluto di architettura.
L’unica idea di panorama per me concepibile è solo quella riferibile al paesaggio umano, che precede quello naturale, quello pittoresco e quello mercantile, e che è sola sintesi dentro un tutto universale. Nessuna cultura e tradizione locale può valere più dell’ultimo uomo che vive al suo interno e, per questa ragione, ogni uomo esprime e può esprimere solo valori universali o resi tali dalla universalità dei suoi gesti e della sua condizione di appartenenza ad un’unica razza e cultura umana.
Questo continua a rimanere, malgrado i deboli di pensiero, un principio generale assoluto.
Non c’è l’uomo da una parte ad osservare ed il teatro urbano o naturale dall’altra ad essere osservato, poiché uno comprende l’altro in un’unica esperienza. Qualsiasi gesto dell’osservatore influisce sulla parte osservata, soprattutto in presenza di modificazioni spaziali. Per questa ragione io dichiaro che non si possono produrre progetti indifferenti al contesto che li contiene e, per questa condizione oggettiva, nessun contesto può imporre l’adesione al proprio linguaggio formale quando, proprio la possibilità della sua negazione o contestazione, è espressione di tale appartenenza. Solo un contesto umano che consente di essere contestato esprime realmente la sua natura. Quindi nessun processo di falsificazione o imitazione può essere accettato come apertura verso il rinnovamento ma solo come chiusura retorica e reazionaria, in senso severamente culturale.
Lezione numero 14
Tra i pittori, nella loro storia, l’invenzione della fotografia rappresentò un vero stravolgimento. Togliere alla capacità tecnica dell’artista la possibilità di rappresentare fedelmente il mondo esterno e sostituirlo con l’esito d’un marchingegno meccanico, dando pertanto a questo la possibilità di riprodurne innumerevoli copie, costrinse le menti più illuminate e sensibili a cercare altri paesaggi, interiori, sentimentali o mentali, essendo esaurito il problema di dover raffigurare gli eventi con precisione nella loro immagine esteriore.
La realtà, quindi, si viene a manifestare secondo altre rappresentazioni, che si riveleranno molto più feconde e profondamente descrittive della condizione umana, obbligando tutti gli uomini a cambiare la loro cultura estetica e, quindi, etica.
Oggi viviamo sicuramente un momento di reazione intellettuale che pare preferire i grandi artisti del passato (in italia su questo siamo parecchio conservatori) ma è indubbio che tra un quadro di Caravaggio e la camminata di Christo sul lago d’Iseo ci sia una disparità, secondo me anche qualitativa, molto grande. Nel primo possiamo ammirare la fedeltà, quasi fotografica, e la ‘bellezza’ della scena. Una scena che è sempre la stessa dalla fine del 16° secolo ma che noi osserviamo con le conoscenze di oggi e la coscienza (cosmologia) di oggi.
Nel secondo la nostra esperienza, invece, è totale e pienamente allineata al nostro presente e soprattutto alla nostra presenza. Di lei resteranno le foto e la ‘narrazione’ fotografica la quale ci riporta al momento della crisi della pittura che dicevamo prima. Nessuno in passato, fuori dal nostro tempo, ci sarebbe arrivato pur possedendo il genio di Christo.
Ciò che mi ha sempre colpito è il fatto che l’architettura, malgrado le avanguardie dei primi del novecento che rincorsero e addirittura precedettero molte forme d’arte figurativa, questo stacco non l’abbiano mai sentito e solo sporadicamente l’abbiano indicato in autori particolarmente lontani dalla concezione accademica della teoria architettonica, più pronta a genuflettersi al passato, e alla sua storia spesso sovrastimata, che a premiare le aperture del talento genuino.
Lezione numero 15
“È una bella prigione, il mondo” dice Shakespeare in Amleto. Tutto il problema dell’arte e delle tecniche per attuarla fanno riferimento alla rappresentazione del mondo sensibile.
La prigione di Amleto ci ricorda la finitezza di spazio e tempo che sono le categorie dentro le quali siamo costretti.
Per questa ragione, chiunque lavori per migliorare la condizione dell’uomo, per nobilitarla rispetto al triste destino che la persegue, ha a che fare con la vita e la sua rappresentazione in forma lirica che è, appunto, l’arte.
Il design e l’architettura sono l’arte di vestire la quotidianità, le cose visibili e utili alla vita domestica, lavorativa e ricreativa. Ma attenzione, non sono solo decorazione, orpello di una realtà determinata dal necessario delle cose comunemente ritenute concrete. La dimensione principalmente estetica del loro essere coinvolge il giudizio etico che noi affidiamo alla comunicazione.
Noi siamo le parole che pronunciamo e possiamo raccontare la nostra storia e la nostra vicenda solo con le parole della comunicazione.
Perciò abbiamo necessità di un linguaggio a cui affidare significati e sensazioni, in cui esprimere il nostro sentire. Ma il linguaggio non è singole parole ma come le stesse stanno insieme a comporre un racconto. Nel nostro specifico le parole sono i singoli pezzi di arredo ma il racconto lo definiamo di volta in volta nelle relazioni spaziali con cui questi elementi vengono in rapporto.
Per questo il design e l’architettura fanno riferimento al linguaggio, alla comunicazione, all'arte.
Lezione numero 16
Bruno Zevi definiva la simmetria «Una grave malattia psichica, sintomo di instabilità interiore. Un edificio simmetrico incarcerato in se stesso, è antisociale». Nell’architettura evoluta, in un mondo che vive solo di relazioni tra le cose e le persone e di contesti sociali e culturali diversi, un concetto come la simmetria è diventato ridicolo. La simmetria, in natura, ha senso solo se implica il movimento e la crescita dei corpi per adempiere a determinate funzioni. Una mano non è simmetrica; lo è un braccio, perché le persone hanno due braccia e si muovono. Ma le case non si muovono e non crescono, per cui è sciocco costringere gli ambienti di vita, che tra l’altro dovrebbero favorire il percorso solare, mai simmetrico, a obbligarsi a forme preconcette pensate solo per sé stesse. Solo un vezzo appagante e autocompiacente di un autore può ignorare le ragioni funzionali dell’architettura per rivivere un canone estetico superato.
Non stiamo parlando di passato. Nella storia la simmetria aveva un senso perché gli edifici rappresentativi e importanti fondavano la loro realizzazione su impianti rigorosi, per ragioni costruttive e pratiche che ne avrebbero imposto la teoria architettonica. Soprattutto su questioni di statica dei muri portanti, di centralità delle finestre, di solai e di tetti che costringeva l’architettura all’interno di questi vincoli. Nessuno avrebbe approvato come disciplina sbalzi o aperture funzionali ma disordinate, per l’impossibilità di risolvere il problema dal punto di vista statico. Che questa condizione abbia dato risultati eccellenti, non c’è dubbio. Ma è il passato.
Questa rivoluzione distributiva, che dobbiamo alle avanguardie dei primi del novecento (in concomitanza con le invenzioni della tecnologia e delle teorie scientifiche) ha permesso al mondo delle costruzioni moderne di liberarsi degli impianti chiusi e rendere le piante aperte; ha liberato lo spazio delle abitazioni, dando la possibilità agli ambienti di conciliare forme, dimensioni, orientamento, disposizione, contribuendo notevolmente al benessere degli abitanti. Questione questa ormai imprescindibile da qualsiasi progetto di architettura.
Lezione numero 17
Alla natura cinicamente non importa della bellezza. Se qualche paesaggio ci appare in particolare seducente e rapisce il nostro sentimento, questo succede perché fondamentalmente ne siamo funzione e riconosciamo in lui gli stessi meccanismi interpretativi che compongono il nostro giudizio estetico.
Questo tipo di giudizio, di cui l’arte è interprete da sempre, fin dai dipinti rupestri, ha viaggiato nei millenni arrivando alla condizione attuale, nella quale essa non si riconosce più nella bellezza del creato, ma nel suo valore antagonista in termini di espressione estetica ed artistica.
Per questa ragione, essendo parte di questa stessa sensibilità, anche l’architettura si pone in antagonismo con la dote originale dell’arte, tanto che discriminiamo radicalmente tra un giardino e un edificio che gli vuole assomigliare.
Per la condivisione ideale delle stesse ragioni dell’arte, se alla natura non importa della bellezza, all’architettura, in fondo, nemmeno.
Cosa vuol dire, quindi, quando parliamo di ‘bellezza’ dell’architettura?
Nulla, se riferiamo il concetto agli stessi argomenti che ci fanno amare il creato o l’armonia con lo stesso.
Molto, invece, se lo riferiamo alle ricerche e alle prospettive dell’arte più evoluta, l’unica che ci serve per l’indispensabile progresso umanistico. Arte, in particolare, che per sua vocazione è costretta a inseguire il mondo per ‘fucinarne il gusto’, e farlo senza la fiacca di pensieri, come la bellezza canonica, l’equilibrio e la misura, che noi erroneamente pretendiamo riferire all’armonia del cosmo, che le farebbero incontrare la sua paradossale antinomia.
L’architettura non insegue la ‘bellezza’ ma, come l’arte, cerca di costruirla, pur avendo qualità diverse.
Qualità che però non sono solo contemplative ma che coinvolgono anche le sue funzioni, indirizzando il giudizio estetico verso considerazioni più articolate che richiedono conoscenze più ragionate.
Lezione numero 18
Per il giudizio critico, l'architettura, che è sempre un evento reale, non è mai solo il suo disegno. È anche e principalmente la costruzione dei manufatti che definiscono un luogo, uno spazio, e compongo un posto in cui vivere. Il disegno (di progetto) ci dovrebbe dare soprattutto l’indicazione grafica e tecnologica di come realizzarlo.
Se si giudica il progetto solo sulla base della sua rappresentazione grafica, della sua 'bellezza', com'è d'altronde legittimo fare, non si coglierebbero appieno tutti gli aspetti che si vorrebbe giudicare.
Per mia esperienza personale, le grandi idee originali condotte infine secondo un disegno rigoroso e definitivo, senza rivedimenti successivi, ripensamenti e aggiustamenti - dovuti alla necessità di tradurre in realtà fisica e architettonica quello che si è pensato - non porta i progetti a grandi risultati spaziali.
Pretendere che l’architettura si adatti al disegno e non il disegno all’architettura rappresenta il maggior guaio degli ultimi 50 anni, nei quali, evidentemente, le suggestioni figurative hanno invaso anche i temi logici propri della materia. Infine, ci ha riportati in una visione retorica, storicistica e reazionaria del vivere quotidiano, che ha prodotto un imborghesimento diffuso dei valori sociali.
Diceva Pablo Picasso: “io faccio sempre ciò che non posso fare, in modo da imparare come farlo“.
Ovviamente, anche un progetto di architettura che ancora non si sa fare, occorre imparare a farlo.
Lezione numero 19
La diversità delle varie civiltà, anche in architettura, sono le risposte culturali che vengono date ad un'unica domanda esistenziale universale.
Gli uomini, che appartengono ad una sola razza, tutti biologicamente uguali, oltre ad avere le stesse esigenze fisiologiche hanno anche gli stessi sentimenti fondamentali: amano, odiano, invidiano, blandiscono, ecc…
La pretesa di giustificare risposte diverse (la tradizione) per il fatto d'essere figlie di domande esistenziali fondamentali diverse, non ha molto senso. Così come non ha molto senso rivendicare l'autonomia della propria cultura, benché condivisa collettivamente e confortata da ragioni storiche; infine per contrapporla a quella del 'pensiero unico' che oggi chiamiamo 'globalismo'.
'Globalismo' e 'localismo' non sono domande diverse. Sono risposte diverse.
Risposte che provengono sempre dalle stesse domande e che dichiarano la misura all’adattamento per cui ogni uomo è destinato, individualmente e socialmente, sulla base delle conoscenze comuni, della capacità di apprendimento e dello scambio di informazioni alle quali può accedere. Le tradizioni, che sono i fortilizi delle conoscenze e dei costumi collettivi, anche se nella storia hanno subito ogni genere di contaminazione esterna, sono quelle che più sono determinate nella tutela delle proprie doti culturali, elevando sul piano dei principi e dei valori fondamentali quelle che sono state essenzialmente risposte locali a condizioni esistenziali storicamente rilevate.
Risulta evidente che, in situazioni e condizioni diverse, alle stesse domande debbano seguire, quando servono, risposte nuove e diverse, conseguenti con le conoscenze del momento e coscienti della strada compiuta in passato per lo stesso motivo. Questo percorso, che sembra di banale coerenza logica, trova, invece, soprattutto nel nostro paese, un enorme ostacolo ideologico che vede le risposte prendere il posto delle domande e, quindi, porsi al di sopra di ogni questione e discussione. Questo succede avendo persino affidato alle istituzioni il compito amministrativo della conservazione, le quali, senza un dialogo serio col presente, riescono solo a porre limiti invalicabili al progresso della trasformazione urbana. Tutela che, se da un lato risulta necessaria per non lasciare il paese in mano alle sole energie economiche e immobiliari, spesso indifferenti alle ragioni storiche, dall’altro procura un limite insuperabile ad un effettivo adeguamento dell'architettura alla civiltà del suo tempo. Un dialogo meno autoritario renderebbe tutto decisamente migliore, sul piano pratico e teorico, senza raggiungere livelli di compromesso così bassi che, quando non premiano l’imbarazzante mediocrità dei risultati o l’ostinata reazione dei conservatori culturali, giungono a condizionamenti ambientali addirittura ridicoli (ambientamento).
Lezione numero 20
Il 'pensiero unico', in architettura, non è una novità. Appartiene alla storia del mondo dai tempi dell’antica Roma ed ha percorso tutta l'arte classica fino alla fine dell'ottocento.
Lo 'stile internazionale', come la nostra cultura profonda, ha origine nella Grecia antica e, se si escludono le pause medievali e le rivoluzioni delle avanguardie del primo novecento, è arrivato ai nostri giorni dove, pare, ancora non abbia intenzione di fermarsi.
Pressoché tutti i palazzi del potere in giro per il mondo, infatti, sono, tutto sommato, in stile neoclassico. Soprattutto quelli più autoritari.
La considerazione curiosa è che ogni destra dispotica e nazionalista rivendica la propria autorità e identità culturale traducendo nello stile classico ogni edificio che la rappresenti. Uno stile rigorosamente internazionale paradossalmente utilizzato a fini locali.
Combattere quello che viene chiamato 'globalismo' con lo stile neoclassico sembra uno sciocco artificio. Condannare gli architetti più efficaci a promotori di un proprio stile internazionale, del quale intendono servirsi per pura vanagloria,
risulta essere riduttivo verso la critica dell'architettura e della possibilità di formare nuovi linguaggi senza vincoli passati. La dominante di un pensiero unico, nel tempo richiesto perché il nuovo sistema si instauri, non sembra una ragione di difesa sufficiente a giustificare ogni azione censoria.
Lezione numero 21
La cultura, quella alta, è una sola: quella umana, che ha un principio fondamentale inviolabile: tutto ciò che può e vuole vivere deve poterlo fare.
Il verbo 'vuole' distingue l'uomo dagli altri viventi, perché solo l'uomo ha coscienza e conoscenza della propria condizione, e solo lui può agire decidendo.
Ma proprio tutti devono vivere?
È possibile fare eccezioni?
Ecco, quando ci si pone questa domanda, che impone distinzione tra esseri con gli stessi diritti, si comincia a costruire una sottocultura a cui appendere le più fantasiose teorie che sempre, nella storia, sono approdate infine nel razzismo (più o meno mascherato), nella prevaricazione e nella violenza omicida. Poi guerra e catastrofi.
Ma in questo modo si esce dalla sfera del principio generale che, essendo tale, sta al di sopra di tutto e lo governa.
Semplice.
Perché?
Perché la morte per la natura non è un problema, perché non esiste, è solo un cambio di relazioni, e pensare di poterla gestire con l’interruttore della ragione è pura illusione. Non è gestibile, non è attraversabile nemmeno col pensiero. A dirla tutta non è nemmeno concepibile, come dimostrano le varie allegorie popolari nate per rappresentarla.
Ve lo posso garantire perché ci ho provato ad attraversarla, avendone avuto recentemente la necessità per capire.
Quando si ha un problema serio, infatti, molto serio, non lo si può semplicemente saltare, scartare o sorpassare. Per risolverlo e superarlo lo si deve attraversare, bisogna passarci dentro e, quando ci si trova dall’altra parte, se ne esce in piedi e sulle proprie gambe, più forti e attrezzati di prima.
Ma questa volta non ce l'ho fatta.
Impossibile.
Non essendo credente, senza neanche il conforto del buon Dio, sono rimasto coinvolto in un viaggio verso niente, un buco nero che assorbe ogni minima energia.
Però dopo si capisce molto.
Si guarda da una prospettiva diversa, dal basso, di traverso, mai centrali - ho detto ‘si guarda’ non ‘si vede’ che fa un’enorme differenza. Si guarda dal fondo della fossa - perché mentalmente ci si è stati - e si guardano tutte le sottoculture che sono proliferate per riempire in qualche modo questo infinito niente.
Sottoculture piccole e grandi, come sono rispettivamente il localismo o le religioni, tutte pronte a occupare uno spazio che non esiste e rivendicare una qualche superiorità etica rispetto ai propri simili. Ma le differenze tra culture religiose, o altre semplicemente polari, non stanno in un contenitore etico, ma molto più banalmente estetico. Nessuna di queste vivrebbe senza liturgia, senza costumi, senza danze e cori, mentre la cultura vera, i principi, non hanno bisogno di rappresentazione alcuna.
Due considerazioni da fare, quindi.
Prima: se una figura culturale a cui ci riferiamo non ha necessità di immagini allegoriche, vuol dire che sta ai piani alti dell’etica e governa (o dovrebbe) governare tutti gli altri.
Seconda: se quella che noi chiamiamo estetica, che è l’arte, seduzione dei sentimenti, ha un potere così forte da portare sul piano dei principi anche solo piccole comunità locali - spesso con l’appoggio di importanti e forbiti intellettuali - bisogna riconoscere che, rimesse le cose al loro posto nell’armadio dell’esistenza, questa virtù può essere uno strumento efficace e straordinario per dare alle coscienze quella che è l’unica ragione di vita della comunità umana: vivere.
L’arte ha proprio questa funzione.
L’architettura è arte in questo senso.
Non importa se deve chiedere aiuto alle scienze tecniche e umanistiche tutte insieme, lo chieda anche nei posti dimenticati, perché ha uno scopo più alto che si rivolge direttamente al principio generale della vita.
Ogni architetto ha quindi il dovere di lottare per questo scopo, mettendosi in gioco per liberarsi del giogo delle parcelle sempre più addomesticate da una concorrenza in cui la qualità professionale sta diventando sempre più tecnica e legale. L’architettura, dimenticata, e riservata solo a chi la sa donare col piglio del maestro di cerimonie del Re Sole, così muore e con essa la meravigliosa società che ha costruito.
Lezione numero 22
Ora veniamo alla ragione chiave, secondo me, di tutto il disastro urbanistico contemporaneo, realizzato con una visione solo legale e utilitaristica del costruito. Manca del tutto l'architettura, mai citata, che dovrebbe, invece, essere l’artefice principale di ciò che si costruisce. Voglio chiarire che sto parlando di architettura e non di architetti. L'architettura la fa chi la sa fare e non solo chi crede di averne i requisiti e l'esclusiva. Quell’architettura che insiste a chiedere una legge apposita per favorire lo sviluppo e la crescita culturale e sociale del paese, ma infine non può fare nulla contro questo principio assoluto e generale che, anche recentemente, la Corte di Cassazione ha dichiarato prioritario su tutte le altre norme, inderogabile, al punto che sembra valere più del diritto a non annegare in mare.
Al diritto alla vita, e viverla come si vuole, si possono opporre eccezioni, anche le più fantasiose o volgarmente egoistiche o meschine, ma questo principio non tollera eccezioni.
Credo quindi che ci debbano essere robuste ragioni ideali e fondate su solide basi scientifiche per rivendicare, fino alla corte più alta, la propria autorità giuridica.
Ebbene, non si tratta nemmeno di una legge ma di un articolo di un decreto ministeriale, che avrebbe dovuto essere solo provvisorio: l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, ma che, dopo aver devastato mezzo paese, resiste inossidabilmente da 62 anni, tanto da diventare monumento di un pensiero ormai dato per scontato: concernr la distanza che occorre tenere tra pareti che contengano finestre, anche una sola, e non importa dove. La ragione di tale imposizione sta nella insalubrità degli edifici che anfratti, cavedi o altre composizioni planimetriche potrebbero determinare. Per questa norma, Genova e tutti i centri storici italiani andrebbero demoliti e sostituiti con un ‘plan Voisin’ nazionale. I tempi del decreto sono più o meno quelli nei quali Le Corbusier - architetto immenso ma urbanista da arresto - pontificava teorie oscene.
In quegli anni, nei centri storici - ora chiamati tecnicamente zone A - ci vivevano gli immigrati del sud del paese, in edifici senza bagni, umidi, inadeguati, e la gente del posto scappava nella prima periferia in alloggi nuovi, con grandi finestre e balconi al sole. Risulta perciò legittimo che teorie che favorissero il rinnovamento delle proprie vite fossero favorite.
Poi le situazioni cominciarono a cambiare.
Tutti noi, oggi, possiamo sperimentare che girare a piedi in una contorta strada larga 3 metri dà sensazioni ben diverse dal frequentare vialoni paralleli e percorsi da automobili veloci.
Tutti noi abbiamo ormai conoscenza d’aver sviluppato tecnologie per il restauro ed il recupero degli edifici - in Italia siamo i primi al mondo - e che se le abitazioni, dopo il restauro, fossero ancora umide e dannose per la salute, molti nuovi immigrati starebbero al posto di molte persone facoltose che, invece, le hanno scelte per andarci a vivere, mandando il valore del mercato immobiliare a livelli vergognosamente ostili. Di fatto le zone A sono escluse dagli effetti di tale provvedimento, ma rappresentano l’esempio di come sia falsa e vecchia teoria affidare al solo distanziamento tra i fabbricati la salubrità di un isolato. Teoria sul distanziamento che funziona, pare, solo in tempi di ‘pandemie’, che sono tempi e situazioni di emergenza, ma che dura da 62 anni ormai completamente fuori da ogni realtà immaginabile.
Ma soprattutto dimostra quando la progettazione dovrebbe favorire la riduzione degli spazi sprecati, senza abuso e spreco di suolo, come insegnano i vecchi centri che, suggerendo il loro impianto planimetrico, oggi non si potrebbero realizzare.
Questa balorda, inconsapevole e potente limitazione ha guidato la mano di ogni progettista che ha svolto attività produttiva, costringendolo in infinite scacchiere che costituiscono tutto il costruito dopo tale norma. Prima comandava il Codice Civile, con prescrizioni ben collaudate che arrivano dagli antichi romani, e che allora furono giudicate inadeguate al nuovo tempo e superate.
Ma ora, non sono decisamente inadeguate?
Dove sarebbe questo robusto principio che dovrebbe tenere in piedi una stupidaggine simile?
La desolazione delle periferie, la frustrazione di vivere intruppati in scacchiere impersonali, non ha bisogno di sartoria, rammendi o altri artifici retorici concilianti, ma di gomma arabica per cancellare una stupidità urbanistica che giudici - che non sanno nulla di progettazione - e funzionari - che probabilmente non hanno mai progettato - non riescono a riconoscere sotto il loro naso.
Lezione numero 23
Ora una riflessione sulla differenza tra l’architettura e gli architetti.
Ho ripreso un articolo da una rivista cilena che dice e si chiede perché un bel numero di personaggi del passato, tra cui i più noti, non avessero titolo accademico specifico per progettare l’architettura (che è il modo ufficiale di certificare una formazione; ma quale, trattandosi sempre di teorie in conflitto tra loro?). Eppure ne son diventati maestri.
Il caso più noto in Italia riguarda Carlo Scarpa, dal talento immenso e una determinazione pari, mai certificata con bolli e titoli, tanto da dover difendersi più volte in tribunale dall'accusa di abusare della professione.
Non tutti i paesi civili hanno però un elenco coi nomi di chi può lavorare o meno.
Noi, vergognosamente, portiamo avanti quello nato dalle leggi razziali/fasciste del 1939, ma pare che nessuno se ne faccia un problema, convinto com’è che per progettare sia sufficiente un pezzo di carta autentico per salvarci dalla catastrofe ambientale. Un modo di ragionare che lo Stato pratica giornalmente, per concedere o proibire, infischiandosene altamente del resto e delegando ad un’unica chiesa le tante professioni ideali a cui il confronto, che viene proibito per deontologia, farebbe solo bene.
Nel nord Europa la professione è veramente libera e, nei paesi anglosassoni, chiede solo di appartenere ad un organismo autonomo senza la benedizione dello stato padrone.
Più si scende a sud, più aumenta la preoccupazione per la felicità dell’architetto e meno quello per l’architettura. E si vede benissimo quanto conti il valore della progettazione al nord e quanto poco al sud.
La verità è che per fare architettura ci vuole un architetto, vero, capace, ma se non certificato, come suggerisce l’articolo, forse meglio. Poi possiamo parlare di professioni tecniche, ma quello è un altro discorso.
Lezione numero 24
Nella lezione 22 precedente abbiamo scoperto con quanta inconscia irresponsabilità la norma sulla distanza tra ‘fabbricati con finestre’ abbia rivelato il suo diritto di elevarsi a categoria di principio, incontestabile e insormontabile. Ma non ne conosciamo più la ragione che, se effettivamente rimane quella dichiarata all’epoca della sua emanazione, risulta sbagliata, arcaica, superata, illogica ma soprattutto estremamente dannosa per la composizione dei progetti d architettura.
Questo fatto, tra l’altro, rimane sintomatico della pretesa della scienza urbanistica di prevalere e governare l’architettura, assumendone il comando (ma senza mai la responsabilità conseguente), la direzione e la condotta per costringerla a rincorrere la banalità delle norme dentro a schemi sempre più rigidi e soffocanti.
La paranoia normativa ha raggiunto un livello tale che occorrono esperti tecnici e legali per interpretare tutto ciò che qualsiasi amministrazione riesce a scrivere nei documenti, che siano piani di attuazione o di tutela indifferentemente. Spesso illeggibili e grammaticalmente contorti perdono di vista il motivo per cui vengono scritti ma dedicano tutto l’interesse e l’attenzione alla sola parte ermeneutica e legale della questione, instaurando una condizione giuridica anomala, goffa, imballata e ormai al limite.
Nell'impossibilità di poter dialogare con un sistema altamente confuso, ingessato, ma ben prefigurato e imposto dalle varie amministrazione, non si trova nessuna possibilità espressiva sufficiente a giustificare una presenza architettonica importante, non banale. L’unica architettura possibile deve rivolgersi al proprio interno e diventare contesto di sé medesimo, virando fatalmente in una condizione autoreferenziale e unica, dotata di forte personalità, tale da diventare una sorta di attrattore e riqualificare l’intero sistema urbanistico circostante. L’idea del museo di Bilbao, di Frank Gehry, costruito in una delle parti meno prestigiose della città, impone con un atto d’arte inequivocabile questa pretesa riuscita.
Tra l’altro, come tutte le opere pubbliche che possono realizzarsi in deroga a norme che il diritto vorrebbe uguali per tutti.
Nelle città contemporanee, la moda di affidare a firme note il progetto degli spazi importanti, se da un lato è sintomo di un provincialismo diffuso e desideroso di farsi proteggere dal prestigio di un nome, dall’altro almeno offre esempio per le visioni di un qualche futuro.
Ma la cosa più importante è che questa nuova centralità rimette in cima alla gerarchia dei valori l’architettura e dimostra quanto l'urbanistica dovrà in futuro dipendere da essa.
Prima l'architettura perché è soprattutto lei a definire l’urbanistica altrimenti chiamata alla soluzione di un falso problema.
Lezione numero 25
(Se vuoi un mondo migliore, inventalo - INTERNO14 - Roma - 2017)
Qui propongo tre testi brevi che avevo scritto a mano su fogli appesi ai muri della galleria, per una mostra che avevo allestito a Roma grazie all'invito di Luigi Prestinenza Puglisi, nell'aprile 2017.
Li ripropongo perché sono una buona sintesi delle mie idee e principi sull'architettura. Idee che si possono discutere e cambiare, perché le idee, con una buona ragione, si possono sempre cambiare, ma i principi mai.
Con questo testo finiscono le prime 25 lezioni che molto presuntuosamente ho così chiamato. Ognuno, ovviamente, è libero di considerarle quel che vuole.
1 - Questo dipinto non rappresenta e non vuole rappresentare nulla; è un pensiero espresso e compiuto ma senza nessun significato.
La liberazione dal senso è la conquista più grande dell'arte contemporanea. Il 'linguaggio zero' è danza di segni nell'assenza di senso.
2 - Come per la musica e la danza, nessuna architettura ha senso fino a che non glielo si attribuisce.
Le architetture sono generate dai gesti e non dai racconti: per questo creano spazio. Cosa fare di questo spazio diventa un problema successivo. Forma e funzione interagiscono, sempre, anche nella nostra indifferenza.
3 - Questo progetto è una danza, un raccontare come travi, pilastri, muri, vetrate nascano e comincino una loro vita autonoma. Come le persone nel loro percorso quotidiano, a volte s'incontrano e altre si scontrano. Quando questo avviene si genera sempre conflitto.
La capacità dell'architetto di risolverlo è la parte più interessante della vita e, quindi, dell'architettura.
Si dice che il diavolo stia nei dettagli, perché è lì che nascono i conflitti; perciò i dettagli, per suscitare emozioni, hanno sempre necessità di una premessa conflittuale. L'architetto, in fondo, si ispira sempre alla vita.
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PS. Le 25 Lezioni di Architettura di Sandro Lazier sono state scritte dal 17 settembre 2020 all'11 novembre 2020, rappresentano il testamento culturale architettonico di Sandro Lazier, che purtroppo per un tumore è deceduto alcuni mesi dopo il 15 febbraio 2021.
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SANDRO LAZIER, architetto, pittore, scrittore, è nato ad Aosta nel 1953, è deceduto il 15 febbraio 2021.
Direttore di www.antiTHeSi.info, giornale di critica dell’architettura, creato con Paolo G.L. Ferrara, è stato cultore della materia nel corso di Laboratorio di Progettazione 3 presso la Prima Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano (Facoltà di Architettura e Società).
Dal 2001, anno della sua fondazione è titolare e amministratore delegato di studiolazier s.r.l.
Nel 2015 gli è stato assegnato il premio nazionale Selinunte per l'architettura per il progetto di un'abitazione nelle Langhe.
È autore di articoli e libri di critica dell’architettura.
Come pittore si è definito: "Sono un ritrattista di segni".
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